giovedì 24 ottobre 2013

La stagione del biancospino.


Inventi un amore

che muore col vento

Ma prima di farlo

Non serba rancore

 

Un giorno di marzo,

con l’aria serena

ti si avvicinò

con il cuore in pena

 

ti prese con forza

con la trasparenza

di chi ha già pagato

ma non abbastanza

 

cantava “l’amore

mi passa vicino

nella stagione

del biancospino”

 

ma il vento era forte

e le foglie spingeva

aprendo le porte

della primavera.

E la accompagnava

In alto sul trono

Spingendo l’inverno

Sempre più lontano.

 

Così primavera

Soffiata dal vento

Del tuo scrigno segreto

Apriva l’incanto

 

La mite stagione

ormai amava il vento

che già le cantava

Il dolce suo nome,

soffiando fra i rami

non stava a guardare

dai piedi ai capelli

la volle baciare.

 

E lui era il vento

Tu la primavera

Ma tu lo portasti

Dove vento non c’era.

 

Nel bosco d’inverno,

il vento raccoglie

del cuore e del viso

le giovani voglie.

Trovando ristoro

Fra i rami e le foglie

S’intreccia con loro

In vortici d’oro.

 

Ma il caldo e la terra

Il vento rifugge

Per il grande mare

Il cuore gli rugge.

Così da quel bosco

Il vento scappava

Attratto dall’onda

che in onda passava

 

E se non c’è vento

E l’aria si ferma

L’amore non vola

Per la primavera,

che resta da sola

già da quel momento

quand’ Eolo s’invola

giù per la scogliera.

 

L’odore del bosco

Secco e rappreso

Lascia l’idea

Di un discorso sospeso.

 

 

 
                         

mercoledì 23 ottobre 2013

Gajardo!


Mi è sempre piaciuto " el romano".. mi sa di allegro, di friccico, di core presciatu e si sa la vita o la prendi come viene o ti fai un grande amaro. Io ci sono stata a Roma, non solo in viaggio, ma ci sono stata per un anno intero a singhiozzi per fare un master alla Sapienza,  e devo dire che in questa città magica, perchè è così che la trovo io, magica ed eterna, bè mi sono sentita addosso un profondo senso di libertà, quella libertà che ti permette di vivere come sei, di sentire mentre l'aria del mattino ti affonda nelle narici e raggiunge le tue viscere, un senso di appartenenza solo a te stessa e a tutto quello che ti circonda. La mia sveglia suonava prestissimo al mattino e ogni giorno era una nuova avventura, perchè quando sei fuori casa, indipendentemente da quello che è il tuo percorso quotidiano che può essere anche lo stesso, le variabili possono essere tante e sempre belle, specie a Roma, anche solo se decidi che hai fatto più presto del solito e vai a passeggiare a Piazza di Spagna, vai a lanciare una monetina a Fontana di Trevi, ti perdi a Piazza Navona, o ti siedi a quel caffè che si affaccia sul Colosseo e ti lasci scaldare dal sole mentre ti gusti un dolcino. Roma è meravigliosa, mi metteva addosso una grande energia, devo tornarci. Ricordo che rientravo dalla facoltà alle 19 di sera, mi buttavo sotto la doccia velocemente e poi indossavo un jeans, una maglia e un paio di scarpe da tennis e uscivo in giro per andare a fare la spesa al discount e non mi preoccupavo mai di non essere truccata, o troppo a posto, non me ne importava affatto e non importava neanche a chi incontravi. E poi potevi metterti dal nulla a parlare con qualcuno, di quello che ti pareva, un pò come faccio io anche qui, rischiando di non essere presa in considerazione, o facendosi qualche volta, o più di qualche volta la più bella chiaccherata mai fatta, con un estraneo, che non ti conosce, con cui hai un piacevole scambio di opinioni su un qualche argomento tirato fuori per fortuita scelta o per occasionalità. I romani veraci o trapiantati hanno tutto un loro modo di comunicare, e quasi tutti hanno quest'aria alla " lassa fare" che si portano a spasso e su questo la dice lunga il loro curioso gergo linguistico che sta anche assumendo una connotazione come dire "universale" un pò come quelle parole made in England che non hanno una traduzione letterale in lingua italiana. Giorni fa mi è capitato sotto gli occhi sulla home del social network per eccellenza, e parlo di facebook, l'immagine di cui sopra che poi è o dovrebbe essere l'anima di questo post e ho riso di cuore davanti a " me fai tajà, sto' na crema"e Nnamo a fette". Solo per poter usare questo slang, senza risultare grezza o coatta, mi piacerebbe trovarmi a roma. Ma passiamoli tutti in rassegna con la loro debita traduzione in inglese. Vediamo in pole position spicca " Gajardo" che sarebbe un pò come dire finendo con l'usare sempre un linguaggio romano "doc" , me piaci na cifra, quindi esprime un gradimento a tutto tondo con quell'accento romano enfatico e che trova corrispondenza in " cool" che però a mio avviso non è che renda la stessa idea. Al secondo posto troviamo " Anvedi" che trovo decisamente "nzarro" e mi fa pensare ai romani de Testaccio che tradotto fa "Wow",  e qui tifo per Wow senza dubbio, che rende il senso dell'espressione tanto in italiano quanto in inglese. " Daje" io personalmente non lo tradurrei con " Come on", sarà che io l'ho usata questa espressione qui come per sottolineare l'ostinazione di un interlocutore X che ribatte sempre sullo stesso argomento, girando in tondo ed io per sottolineare la monotematicita' del suo discorso esplodo in un " Dajè"!!.. Passiamo ora a quelle espressioni talmente curiose e colorite che davvero me fanno tajar per dirla alla romana e sarebbero " sto'na crema", nnamo a fette, me fai tajà. Quella che di gran lunga preferisco è sto'na crema perchè sintetizza in un'espressione efficace e gajarda lo stato d'animo o fisico di una persona che si paragona ad una crema pasticcera appena tolta dalla fiamma in incipiente stato di condensazione, e la crema si sa è bona. Quando l'ho letto ho pensato che un giorno, non so bene quando, vorrei poter pensare e dire che " sto'na crema" indipendentemente da tutto quello che c'è di condizionante o meno intorno, che mi sento come una soffice e profumata crema pasticcera. " Nnamo a fette" mi lascia perplessa, ma un bel pò perplessa, mi verrebbe da pensare " andiamo a fette" traduzione grossolana dal senso improvvisato e so perfettamente di essere fuori pista, ma credere che possa significare " Let's walk" bè mi fa ridere e anche me fai tajà non è di certo male, è casereccio, trasmette efficacemente il senso del divertimento provato. Più semplice ed abbordabile è " "se beccamo", bè a parte quel " se", magari noi lo italianizzamo con " ci becchiamo", " ci si vede, e ci avviciniamo di più alla traduzione inglese " See you". Notiamo, quindi, attraverso questo piccolo manifesto comunicativo, come sia importante la comunicazione, come sia diversa nei mezzi, nel linguaggio, negli slang, nel gergo, e di come sia in fondo profondamente simile, come il filo conduttore della straordinaria macchina comunicativa sia poi lo stesso e lo capisci facilmente quando metti insieme un salentino, un inglese e un romano che ognuno parlando la sua  lingua si capiscono alla perfezione.

lunedì 21 ottobre 2013

A sud del confine. A ovest del sole.

Nat King Cole canta ".. A sud del confine. Ma cosa c'è a sud del confine?.. Cosa vuole dire con quelle parole?.. C'è da rimanerne delusi quando leggendo il testo in inglese ti accorgi che è solo una canzone sul Messico, ma in realtà per tutto quel tempo in cui non lo sapevi hai pensato e ti sei chiesto mille volte cosa ci fosse a sud del confine. Hai creduto ci fosse qualcosa di molto bello, grande e morbido, qualcosa che si può mangiare o toccare. Ti sei figurato nella testa tanti " forse", e si sa i forse sono padroni di un fascino indiscusso perché è una parola magica di cui non puoi prevedere il valore, il forse sortisce un fortissimo effetto calamita e tu ne sei inevitabilmente soggiogato. A sud del confine continua con .. a ovest del sole. Cosa vuol dire a ovest del sole?.. Sono due concetti inscindibili, l'uno abbraccia e presuppone l'altro, sono la metafora dell'esistenza umana, quella di un contadino della landa siberiana, che lavora ogni giorno nei campi e non vede nulla attorno a sé. Ogni giorno quando a est sorge il sole, esce per lavorare, quando è alto nel cielo si ferma a riposare e pranzare, quando tramonta, a ovest, torna a casa e si addormenta. Una vita uguale che si ripete allo stesso modo per anni. Poi un giorno qualcosa dentro di lui muore, muore qualcosa, si spezza perché è inevitabile, qualsiasi cosa che rimanga a lungo uguale a se stessa finisce con l'esaurire a poco a poco la sue energia. Un po' come la vita di ognuno di noi, gli stessi percorsi battuti da anni, ciò che si ripete allo stesso modo, questo sentirsi di essere sempre a ovest del sole, ti fa desiderare quasi dannatamente di scoprire cosa c'è a sud del confine e sei come risucchiato da un vortice che si chiama " forse". Questa è una delle stanze che ho abitato leggendo questo straordinario libro di Murakami Haruki, intenso, crudo e profondo come le emozioni che suscita, in grado di avvilupparti in una lettura avida di sensazioni fino all'ultima pagina. Parlo di stanza, perché quando leggi questo libro, senti quasi di abitarne le pagine, ti da la sensazione di vivere sulla tua pelle ogni scelta dei protagonisti, senti di abitare una stanza. Il protagonista maschile Hajime, quando parla di " a ovest del sole" parla di se stesso, di un uomo sposato con una donna che ama e con due bambine e due locali avviati e noti nel cuore di Tokio, che è felice di fare gli stessi percorsi ogni giorno, che crede di essere appagato, finchè quelle che lui chiama " possibilità o idee" quelle cose che non si possono vedere né sentire vengono fuori da qualche parte e si mescolano dentro di lui, facendolo ritrovare, a un tratto, come quel contadino siberiano a ovest del sole mentre vorrebbe essere a sud del confine. E a sud del confine lui, Hajime si vede accanto a Shimamoto.
Shimamoto era una bambina che Hajime aveva conosciuto a soli 12 anni e aveva inconsapevolmente amato come solo gli uomini bambini sanno fare, senza erezioni fisiche che suggeriscano quell'amore. Perché si sa, con gli anni, (e questa è una mia voluta digressione) quegli stessi bambini che diventano adulti perdono la capacità di relazionarsi con l'altro, perdono con l'altro quell'autenticità nei dialoghi, nei bisogni e nei desideri, smettono di dire all'altro che hanno paura di amare, di esserci, di sbagliare, smettono di manifestare naturalmente le proprie debolezze, smettono di comunicare, si chiudono in se stessi a chiave e a doppia mandata fino a diventare impenetrabili, inarrivabili. In questo modo le persone si restano vicine ma sono lontane migliaia di km. Sarebbe meraviglioso se tu riuscissi a dire ".. ho paura perché da qualche tempo mi sento come una lumaca senza guscio e che quel lui cui lo dici, senza filtri e senza difese che solo gli adulti sanno innescare,  ti risponda ".. se è per questo anche io ho paura, mi sembra di essere una rana senza membrane connettive nelle zampe " e si resta così per un po' a guardarsi negli occhi con le proprie fragilità, nudi, non solo senza vestiti addosso, ma nudi nel senso più vero. Si resta così una lumaca senza guscio e un ranocchio privo di membrana connettiva. E qui la mia digressione finisce.
Ora a distanza di anni, quella bambina che non aveva più visto, ora donna,  si era materializzata nella vita di Hajime come una nuova possibilità, come una tentazione cui era difficile sfuggire, solo che ora le cose erano diverse, lui era sposato e non poteva. E non poteva amarla come avrebbe voluto e desiderato, e qui quasi da colonna sonora due bellissimi pezzi " .. the star crossed lovers " e ancora " Pretend" di Nat King Cole fanno da cornice a questa storia di impossibilità. " Pretend you're  happy when you are blue it isn't very hard to do" . Forse!.. forse no, perché quando si è perduto resta addosso la fame e la sete. Ma dipende, dipende da quanto diventa importante scoprire cosa c'è a sud del confine. Ci sono tante altre stanze in questo romanzo che si ha voglia di abitare e forse, anzi senza forse ve ne parlerò.

giovedì 17 ottobre 2013

Io che amo solo te.

 

Ho finito di leggere da qualche giorno il libro di Luca Bianchini " io che amo solo te" e devo dire che fedelmente alle previsioni delle statistiche sui più letti stilate nel mio blog, l'ho letteralmente divorato. Sono stata attratta da subito dalla copertina, si sa il primo approccio è sempre fisico, dove campeggiano su uno sfondo bianco come il latte due grossi peperoncini rossi e credo piccanti che hanno tutta la parvenza di intendersela, quale rappresentazione più veritiera del salento, di una terra rossa calda di sole. Luca Bianchini ha fatto centro, per quanto di natali torinesi, lo scrittore  ha capito perfettamente quando si parla di Salento cosa si intende. A sottolineare il sapore caldamente salentino del libro una strofa tratta dalla canzone "Estate" dei Negramaro " Il tempo passa e tu non passi mai". E qui l'autore parla di Ninella, la donna amata da Don Mimì, protagonista maschile del romanzo,donna, che per mancanza di coraggio, per l'ostinazione a tutti i costi di mantenere integro il buon nome della famiglia e fare salve le apparenze, Don Mimì perde, convolando a nozze con una donna che non ama, ma che si confà al suo rango. Tema centrale di questa storia che si svolge nella bella Polignano a mare, chicca salentina, dove imperversa furibondo ed ostinato un impavido maestrale in grado di scuotere animi e cuori, è l'amore perduto e mai finito, che diventa una cura costante, che soffocato dalla razionalità e dalla prudenza alimenta una passione mai sopita che esplode in tutto il suo impeto all'occasione più insolita, le nozze del figlio di Don Mimì e della figlia di Ninella, che fidanzati da anni, quasi come una beffa della sorte, si sposano. Ebbene si il destino ha giocato a dadi e ha intrecciato le vite di Chiara, la figlia di Ninella e Damiano, figlio di Don Mimì, dando modo a questa passione a lungo sopita da distanza e silenzi di esplodere più viva che mai. L'amore è il tema principale quindi, intorno al quale ruotano come satelliti tanti altri: questo costume ormai divenuto uno stereotipo nel meridione, di " sistemarsi", di accasarsi, di mettere la testa a posto e trovare moglie, è quello che Don Mimì aveva da sempre ripetuto a suo figlio, che quello che contava era la sistemazione, non l'amore, non l'autenticità di un sentimento, ma la sistemazione. E Don Mimì ha paura di aver sbagliato tutto, di aver portato Damiano all'infelicità insistendo su quel punto, paura che si sposasse più per dovere che per convinzione. Lui, Don Mimì il re delle patate, così lo chiamavano per via dei suoi possedimenti, era un uomo così passionale e forte ma aveva imparato ad esercitare un controllo esagerato sulle sue vere emozioni, aveva speso quegli anni accanto alla moglie a raccontarsi bugie, si era rifugiato nel lavoro, negli affari, pur di mantenere saldo quel controllo, che però perdeva quando rivedeva la sua Ninella. E' tangibile nelle pagine il desiderio di un padre che non vuole che il figlio sbagli come lui ha fatto, tradendo se stesso. E ancora oltre a questa facciata di perbenismo, ai valori a tutti i costi, le apparenze da salvare, perchè Damiano ha un fratello che è gay ma che la famiglia, pur consapevole nasconde, per evitare la vergogna montando una falsa storia con una ragazza di Copertino che prenderà parte al banchetto di nozze, ma che a insaputa di tutti è lesbica. Quindi l'ilarità, la comicità, il grottesco,  di cui alcune pagine sono pregne, la sorella minore di Chiara, Nancy Casarano che vuole perdere i chili di troppo e la verginità un pò in fretta e provoca perchè la irretisca un giovane di bella presenza addetto a fornire prestazioni di tal sorta in un trullo della zona. Il banchetto di nozze degli sposi è un tripudio di piatti ricchi e sfiziosi e altrettanto ricchi saranno i colpi di scena che questo libro vi riserva senza rischio di parsimonia alcuna. Interessante lettura dove Luca Bianchini coglie perfettamente, avvalendosi di una scrittura semplice e fluida, il folclore salentino, la passione, i costumi, i sapori e la fissità di certi stereotipi soffocanti che rifuggono la modernità dei tempi odierni, di cui si è inevitabilmente prigionieri perchè tanto si schivano tanto si è loro avvezzi. Vi lascio con un passo tratto dal romanzo :" Mimì si fece coraggio e, senza neanche guardare sua moglie, si alzò dal tavolo e si avvicinò a quello di Ninella. Lei vide la vita che voleva venire a passi lenti verso di sè."

lunedì 14 ottobre 2013

Fuck you!

C'è una paroletta magica che risolve tutti i problemi, o la maggior parte, che ti cava d'impaccio, che ti fa arrivare all'ultima pagina di un libro mai letto anche se sei solo alla prima, che ti fa nascere dentro una sorta di sollievo inspiegato quando la pronunci, che ti fa vomitare di botto tutto quello che hai detto o solo pensato, che come un cassino su una lavagna imbrattata di gesso cancella tutto, ti mette su on e ti fa ricominciare.
Questa parola qui si chiama " Vaffanculo". La dici a gran voce perchè necessita di volume quando la si pronuncia, non è di quelle parole che puoi dire all'orecchio o a voce bassa, no! Anzi devi dirlo forte, deve risuonarne l'eco, funziona in una stanza spaziosissima e quasi vuota o in macchina mentre guidi con l'autoradio che impazza a palla, togli il volume, chiudi i finestrini e gridi un bel " Vaffanculo" a tutto e a tutti.
A chi non merita la tua presenza, i tuoi pensieri, a chi ti regala la sua sufficienza e lì ti soccorre quasi lo slogan pubblicitario L'oreal".. perchè io valgo" e quindi vaffanculo!.. A chi hai dato senza stancarti e non ha saputo o voluto apprezzare, a chi è indeciso, a chi ha deciso e ha deciso che tu che non sei un buon affare, a chi ha scelto qualcun altro a te, a chi non ti ha dato una possibilità, a chi non ti ha voluto, a chi non ti vuole, a chi ti vuole ma a metà, a chi stai sullo stomaco, a chi ti sta sullo stomaco, a chi non scorderai mai pur avendo la sensazione che lui ha già scordato te, a chi ha spazzato con il suo modo di fare le tue certezze, a chi ti ha preso in giro, deluso, illuso, trattato nel peggiore dei modi, a chi è stato incapace di andare fino in fondo per codardia, per paura, per scarso zelo, a chi solo per un attimo non ti ha fatto provare fiducia in te stesso, a chi ti ha tolto, a chi non ti ha mai dato, a chi ti ha perso, dedica un sonoro, a lui decidere se lo preferisce in versione rock, jazz, funky, pop, classico, balcanico, elettronico, comunque sia sonoro e a volume altissimo che dovrebbe tapparsi le orecchie per non sentirne l'eco fastidioso, dedica dal profondo delle tue viscere, dagli angoli più remoti e reconditi del tuo essere, dedica, fai arrivare, sprigiona, fai emergere dal sotterraneo un grandioso, pazzesco, orgasmico vaffanculo! Restituisci vigore ai tuoi sensi offuscati, svegliati dal letargo della filosofia della sufficienza, considerati meritevole di tutto il meglio che esiste nell'universo e lascia che ti trovi, ma prima, prima di tutto questo, dispensa un vaffanculo con tutta la generosità di cui sei capace e lascia che per una volta la stessa generosità di cui sei stato capace nell'accoglienza eguagli la generosità di un vaffanculo. Si dico a te, interlocutore a caso, consiglio a te di smetterla di frequentare passioni tiepide, e di inseguire fuochi fatui, perchè i fuochi veri sono solo in grado di bruciare fino all'ultimo, non conoscono soluzioni alternative, bruciano, ricambiano nonostante tutto, quindi allontanati, rifuggi con tutto te stesso ciò che non è autentico, licenziati dalle passioni mediocri e incapaci di nutrirti e dissetarti, licenziati con un liberatorio dito medio.

martedì 8 ottobre 2013

Parole e silenzi.

 
Ma quante ne usiamo di parole?... Tante, innumerevoli, per comunicare, per spiegare, per dire. Ma poi per dire veramente cosa? Diventa quasi un bisogno quello di raccontare, di parlare. E' come se a un certo punto avvertiamo quel necessario impulso di svuotarci completamente, e buttiamo fuori parole, semplici, ricercate, le troviamo, le cerchiamo. Sono belli i momenti che hanno parole, sono pieni, ci sembrano pieni, a volte sembrano soltanto, perchè in fondo non è detto che dicano sempre qualcosa, spesso si cade in un inevitabile misenderstood e tante parole dette servono solo a capirsi di meno, a volte invece le perdiamo, è come se ne avessimo tante ferme sulla punta della lingua e non abbiamo il coraggio di farle venire fuori, siamo come bloccati, fermi e forzatamente silenti. Quando accade siamo a disagio, siamo fuori luogo, ci sentiamo inadeguati, non ci sentiamo amati abbastanza, oppure abbiamo da dire talmente tante cose che non riusciamo a farne uscire dalla bocca neanche una. Le parole sono nostre solo finchè restano in bocca, poi quando le lanciamo ai nostri interlocutori, possono essere fiori o sassi, dipende. Bisogna maneggiarle con cura, bisogna contare fino a 10 prima di parlare, bisogna arginare delle volte il fiume della spontaneità ed evitare di dargli sfogo. Il potere della comunicazione è fondamentale, le parole che diciamo possono costruire e distruggere, e in un certo qual modo finiscono per rappresentarci, magari in modo errato. Forse sono più fortunati perchè più cauti, ma inconsapevolemente, quelli che ne usano di meno, che praticano di più l'arte del silenzio con se stessi e con gli altri, forse coltivano campi migliori e rapporti migliori, forse. Ogni parola si veste di un significato e viene percepita dall'interlocutore cui è destinata, magari con un significato diverso, il silenzio che invece dovrebbe o potrebbe, per certi versi, risultare più ambiguo, perchè potrebbe vestirsi di "un mi manchi", di "un stammi lontano", di "un aspetto l'occasione giusta", di "un è meglio così", bè in realtà ha percezioni chiare e inequivocabili per il destinatario che lo sa leggere.
Io sono innamorata delle parole, le uso, le scrivo, sono innamorata dell'impatto che hanno, sono piene di energia, sono comunicative, sono cariche di espressione, e quando le uso mi sento libera, mi sento appagata, e subito dopo svuotata, i silenzi mi pesano, spesso. Non avere nulla da dirsi è la più triste delle cose, parlare con frasi confezionate, è come non parlarsi affatto, a quel punto lì meglio i silenzi. Però quando sono da sola, invece, accade una cosa piuttostro strana, quel silenzio che coltivo con me, lontano dal chiasso delle parole, mi cura, e avverto quanto è, o può essere prezioso non dar voce alle parole. A volte, non so se capita a voi, ma io ho quella sensazione di usarne tante davvero, come una dipendenza e dopo averle usate, però, è come se mi pentissi, e penso che in quel momento un silenzio mi sarebbe tornato forse più utile. Sono due bisogni strani, le parole e i silenzi. Quando parli tanto ti svuoti e ti liberi, è come se restituissi sollievo ad una parte di te che avverte quel bisogno, quando sei in silenzio metti ordine, sistemi le cose, metti a posto i tasselli, lasci che quel caos interiore che hai dentro si rimetta a posto da sè, ci mette del tempo, forse tanto, ma fa un ottimo lavoro.

mercoledì 2 ottobre 2013

Solo una Kinder fetta al latte.

E' arrivata l'insonnia, pare che ad ottobre si desti anche lei e girovaghi per le case della gente, ha una predilezione per le camere da letto, ti si avvicina, ti grida all'orecchio qualcosa, delle volte sussurra e basta, altre, quando è più nervosa, ti punge.
Mi ha appena punta e non c'è stato verso di riprendere sonno. E' come una dannata puntura di zanzara, fa male, pizzica forte. E' arrabbiata, è senza pace, non mangia da giorni e gira senza posa. Le ho consigliato di aprire il frigo e di prendere ciò che vuole, ma lei vuole solo parlare con me. Ha fortuna, io non dormo più e ho un libro sul comodino fermo alla stessa " orecchia" da giorni, fermo alla stessa sottolineatura dallo stesso giorno. Dice questo il breve periodo che ho rimarcato ad inchiostro nero ".. se si potessero cucire le ferite con ago e filo come si fa con gli strappi nella stoffa, le cure sarebbero più sopportabili". E' un pensiero di Isabel Allende in Inès dell'anima mia, è anche ora un mio pensiero, acquisito, ma anche mio. Forse lei ha ragione, mentre la pelle te la cuciono, soffri, poi però quando le due estremità sono state riprese vicine con ago e filo, quel filo che le tiene insieme, poi cicatrizza e viene tolto via quasi facilmente, ne basta sollevare l'estremità di un punto e lo sfili via e la pelle resta unita, la pelle dello strappo. Alcuni strappi dentro restano strappati, e la pelle resta distaccata dall'altra, la ferita resta aperta e basta che il ricordo ci torni sù per vivificare la ferita col sale. Le ferite dell'anima sono tagli nel sale, bruciano, poi le curi, solo poi. Bè dovevo pur dire qualcosa alla mia ospite indesiderata, che è arrabbiata senza possibilità di fugare quella rabbia. Mi ha fatto una domanda, è quella stessa domanda che le ruba la pace da giorni, sta andando in ogni camera da letto possibile nelle case della gente a farla, l'ha fatta anche a me. ".. perchè la gente non si da una cazzo di possibilità, una che sia una, quando qualcosa di bello bussa alla porta"?.. Io la guardo e non so che dire perchè questo suo interrogativo esistenziale alle 4 del mattino mi spiazza, cosa devo dirle?.. Mi verrebbe subito, senza nemmeno pensarci, di dirle che è perchè quella cosa che lei crede così bella, forse per la gente di cui mi parla non lo è davvero, altrimenti mai al mondo se la lascerebbe scappare una fottuta possibilità in questa vita così effimera. Poi mi verrebbe da dirle ancora, forse perchè manca il coraggio, forse perchè ci sono persone che si assumono il rischio delle cose, come me, che quando qualcosa di bello viene a bussare, bè faccio un tale casino per vivermela, che l'insonnia non si immagina neanche, lotto disperatamente per strapparmi quell'emozione e cucirmela con ago e filo sulla pelle. E poi le dico che può essere anche perchè bisogna rispettare la propria natura, ci sono uomini da porto e uomini impavidi da mare aperto. Lei mi fissa come per farmi capire che non mi segue nei miei ragionamenti, e ribatte che la vita è una straordinaria, meravigliosa, fantastica occasione per far muovere il cuore e tenere a bada la ragione. Io sono d'accordo con lei, smetterei di mangiare anch io per giorni per avere ragione, ma la ragione non serve. Le ho suggerito di mettersi il cuore in pace e di smetterla di arrovellarsi, che c'è sempre una ragione, ma che non è quella che importa. Importa il modo che la palesa, e ce ne sono tanti di modi, alcuni sono solo sbagliati. Le ho detto di prendere una kinder fetta al latte dal mio frigo, se ne fosse rimasta più di una, e di tornarsene a letto, non mi piace la faccia che ha, ha la fronte aggrottata, gli occhi gonfi di pianto e si danna perchè non può dormire, senza trovare una risposta alla sua domanda. Io le ho detto che la penso esattamente come lei, che quando qualcosa viene a trovarci, e te la trovi lì, quell'emozione, inaspettata, e forse dietro la tua porta da sempre, bè devi lasciarla entrare, devi trovare il vento che gli spalanchi la tua porta, altrimenti tornerai a guardarti indietro sempre. Io lo so trovare il vento e se non c'è lo scateno, vado da Eolo e mi faccio annunciare. Le occasioni della vita hanno bisogno di vento, non importa quanto durino, non lo saprai mai se non te le vivi, perchè sono quell'energia pura incontaminata, senza spazio e senza tempo, che rifugge le logiche e i piani, che ti cura e non ti serve l'ago e il filo. L'insonnia è arrabbiata, ed ora che mi ci ha fatto pensare, svegliandomi, lo sono anch 'io. Le ho suggerito di prenderlo quel volo e di andare dall'altra parte del mondo per vedere cosa c'è, di farlo, di non stare più a pensarci e le ho suggerito anche di voltare le spalle decisa a chi non trova vento per lei, di andarsene via. Non lo so se lo farà, credo che abbia paura, credo che abbia la testa dura più della mia, credo che si aspetti che quel vento la segua, io questo non posso saperlo, però. Sono certa di una cosa, che stamattina prima di andare in studio berrò solo il caffè, non la troverò la fetta al latte, l ha divorata lei, credo ne fosse rimasta solo una.