martedì 6 settembre 2016

SFIORATI

Albaret Sainte Marie, piccola cittadina nel cuore della Francia, era ancora immersa nel sonno di un'estate rovente, mentre il sig. Martin, un uomo basso, dall'aspetto un po' goffo, con la sua barba bianca incolta, apriva, come ogni mattina, Le Rive Droute, il suo caffè.
Con il consueto cerimoniale, metteva fuori, una ad una le sedie, poi i tavolini, ornandoli di fiori profumati e freschi, e lasciava parcheggiata, vicino alla porta del suo negozio la sua vecchia bicicletta gialla col cavalletto.
Ogni tavolo disposto ad arte, aveva un vaso simile di vetro soffiato azzurrino, con un fiore diverso in bella vista, viole, girasoli, tulipani, margherite e rose. Era compito della sua consorte, la signora Gina, andare dal fiorista all'angolo della strada e comprare i fiori più belli per il suo caffè.
Alle 7.30 del mattino, puntuale come un orologio svizzero che spacca il secondo, il sig. Thierry Dupont passeggiava frettolosamente lungo il viale del caffè Le Rive Droute, con la sua ventiquattrore in mano, accigliato e fiero. Thierry era un uomo sui quaranta, alto, moro, con i capelli corvini ancora folti, e due grandi e profondi occhi scuri; aveva un incedere fermo e risoluto, ed era sempre impeccabilmente elegante.
Quella mattina, Thierry si era fermato a bere il suo solito caffè, corto e nero, seduto ad un tavolino di Le Rive Droute, con la ventiquattrore poggiata sulla sedia di rimpetto, intento a leggere il suo giornale. Mentre spulciava, assorto, la penultima pagina di Le Monde, alzato lo sguardo per finire il suo caffè, vide per la prima volta Alina.
Così aveva detto di chiamarsi, Alina. L'aveva detto al sig. Martin, che aveva raccolto la sua ordinazione, e Thierry aveva subito pensato che quello fosse davvero un bel nome.
Era seduta, proprio a pochi passi da lui, segnati dai tavolini del caffè rigorosamente allineati, con le gambe perfettamente accavallate, la pelle bianca come il latte e i capelli castani dorati dal sole, scomposti su un bel viso, senza l'ombra di un trucco; beveva il suo caffè e mangiava con una naturalezza innata, quasi finta, un florido limone giallo.
Ne staccava i pezzi della dura buccia a morsi lenti, fino a consumarla e a succhiarne il succo aspro, onorando ogni tanto la tazzina di caffè della sua bocca.
Thierry intanto aveva dimenticato l'ora, e aveva anche dimenticato il suo caffè, che ormai freddo, ristagnava nella tazzina. Aveva occhi, solo per quell'insolito cerimoniale di bellezza che gli si offriva davanti.
Non c'era più nessuno per il sig. Thierry Dupont, il caffè era gremito e dei ragazzini facevano un gran vociare al tavolino accanto, ma per lui erano di colpo scomparsi tutti, il chiasso del caffè, la gente intorno, la sua ventiquattrore. Restava solo Alina, quella sconosciuta.
Non riusciva a distogliere lo sguardo da quella donna, aveva un corpo magro e tornito, indossava un vestito rosso di una seta leggera quasi palpabile che le copriva le gambe fino alle ginocchia, e che non offriva nessuna generosa scollatura alla vista, era casto, eppure in quella castità Thierry ci aveva visto tanta audacia. Si era perso.
Intanto la sconosciuta aveva finito il suo limone, e lo aveva poggiato sul tavolino, ne erano rimasti pochi morsi, ma forse, per Alina bastava così.
Poi, nello scorrere di un istante, aveva preso con sé la borsa e le sigarette, e si era dileguata, lasciandolo così attonito, immobile, al tavolino di le Rive Droute.
Lei non si era accorta di lui, non aveva visto quell'uomo così attento ad ogni suo gesto, seduto a quel tavolino, era presa da altro Alina, lui, Thierry, era preso solo da lei.
Deluso, lasciò pochi spiccioli al sig. Martin e passò vicino a quel tavolino, dove fino a qualche minuto fa era seduta Alina, cercando di scorgere con lo sguardo, un qualcosa, un particolare, che potesse portarlo da lei, che potesse permettergli di incontrarla ancora, di rivederla. Ma non vide niente. Un mozzicone di sigaretta giaceva solitario sul fondo del posacenere, la tazzina di caffè dove lei aveva poggiato più volte la sua bella bocca, era come abbandonata,relitto immobile su quel tavolino, e adagiato sul sottopiattino della tazzina, quel limone giallo consumato, che fu tentato di prendere e portarsi via, ma subito la ragione gli suggerì che sarebbe stato un gesto senza senso, e lo lasciò li, e riprese il suo incedere fermo ed elegante.
Era più accigliato di prima, il suo passo era più frettoloso e si dileguò anche lui lungo il viale.
Thierry tornò, quasi ogni giorno, alla stessa ora in quel caffè, con quella stessa speranza, e con un ardore sempre più vivo, alimentato dal ricordo, dal pensiero di Alina, e aspettò in quel caffè, col suo solito giornale spiegazzato, ingannando il tempo di quell'attesa gonfia di ogni speranza, intrattenendo conversazioni distratte. Per un lungo mese, Thierry sedeva allo stesso tavolino, e oltre a quei tavolini rigorosamente allineati, alla bicicletta gialla, incontrava solo la sua rinnovata solitudine, e qualche volta bevendo il suo caffè, distoglieva lo sguardo, e guardava fisso quel tavolino vuoto,sperando di figurarsi di li a poco, la donna col limone.







mercoledì 13 luglio 2016

Forza Puglia mia.

12 Luglio 2016. Ieri, un giorno in cui la calura la sentivi sulla pelle, quasi prepotente. Un giorno che è ormai marchiato a fuoco nella memoria dei pugliesi, di quelli che sprezzantemente chiamano terroni, tutta invidia, perchè abbiamo una terra meravigliosa, dove friniscono le cicale, campeggiano fieri gli ulivi, il mare urla d'azzurro e la terra è di un arancio rosso come corallo che si sbriciola. Maledetti invidiosi. E l'invidia arriva, gli ulivi stanno morendo e ieri, in mezzo a quegli ulivi, in aperta campagna, dove il sole torrido faceva da testimone inerme, lì tra Corato e Andria, due convogli su un maledettissimo unico binario si scontrano su un'aspra curva e poi il caos, la tragedia, la morte unica passeggera di quei convogli. Tante vite interrotte, vite semplici, di pendolari, che il treno lo prendono, lo vivono tutti i giorni, che lì, in quelle carrozze "novecentesche", hanno consumato momenti di vita, amori, ansie per gli esami, attese per gli arrivi, il sonno, le confidenze, le speranze, lunghe telefonate, pensieri, nostalgie. Un treno che come una spugna è imbevuto di emozioni, di vita, e di tutto ciò che la vita può essere fatta, di tutto ciò che un quotidiano viaggio in treno può significare per un pendolare, per una qualsiasi persona che vi sale e che vuole giungere ad una destinazione. << Papà l'esame è andato bene, sono in treno, arrivo alle ore>>.. e poi la morte ti guarda dal finestrino col suo sguardo raggelante e tu non arrivi più, perchè non lo potevi mica sapere mentre ti facevi la doccia, mangiavi frettolosamente un cornetto, bevevi il caffè, parlavi con chi amavi, convinto di poterlo rivedere. E invece quello che dobbiamo capire, quello che ieri pensavo, che non riuscivo a smettere di pensare, tra le lacrime che scendevano per conto loro, è che non è detto che a casa ci torni, che quella persona che ami la rivedi, che quel momento è solo uno di una collezione di momenti che ti aspettano. Niente è maledettamente certo. Perchè accade sempre, accade che ci si accorge dell'importanza della vita, della quotidianità che ci sembra scorrere liscia e scontata, e quasi dovuta, solo quando qualcuno, più di qualcuno se ne va. Come in questo caso, due treni che non giungono a destinazione, che collidono violentemente, vite interrotte, famiglie smembrate, desideri e speranze vanificate, sangue sparso su un binario unico. Perchè anche questa volta incaponirsi a definirlo destino è una cazzata, non può essere destino, una strage di queste proporzioni. Non che l'attribuzione di una responsabilità determinata, la riconducibilità a dei colpevoli, cambi le cose, delinii un riscatto, non potrà mai esserci riscatto, anche per una sola vita di desideri, speranze, proiezioni presenti e future, per una vita sola spenta, non c'è, non ne ravviso la possibilità. Non esiste!!!!!! 
Sapere che tuo figlio che ha preso un treno non c'è più per colpa di qualcuno, non ti cambia niente, fa crescere la rabbia, fa crescere l'impotenza, la violenza che ti preme dentro e che reprimi fino a soffocare, specie se si tratta di qualcuno che è ai piani alti, e che se ne è ampiamente fottuto di costituire un doppio binario, perchè i soldi c'erano, ma non sono mai stati usati. i soldi c'erano, ma forse qualcuno aveva deciso che non servivano, che non poteva mai accadere niente di funesto, niente di inimmaginabile, niente. Errore umano, responsabilità. Queste le chiavi di lettura immediate, ma cosa vuoi che gliene freghi, a chi nel cuore trova solo posto per un dolore indicibile, a chi stamattina ha riconosciuto tra le salme un suo caro, a chi in quest'estate qui, segnata da un lutto scevro da ogni previsione, di continuare a vivere non importa più. A chi diamo la colpa?... Alla Regione, a soldi stanziati mai usati, a qualcuno che non ha fatto una telefonata per avvisare della destinazione del convoglio??... Mentre lo scrivo mi indigno, ma vi pare possibile che i treni nel 2016 siano sprovvisti di sistemi di automatizzazione???... ma allora chi sale su un treno quante probabilità ha di scendere a destinazione? o di morire su quello stesso treno??... ma questo vi pare possibile?... Perchè questo divario nord - sud si fa sentire prepotente?... E sopratutto perchè prima deve accadere qualcosa di irreparabile e poi forse, nella speranza che non accada più, la gente, le istituzioni, muovono il culo???... Resta quella speranza che non accada più!!! Ma cosa vuoi che se ne faccia la gente orfana di affetti, che piange morti, che deve trovare un motivo per continuare a svegliarsi al mattino, cosa voltete che se ne faccia!??... Le mie sono parole di rabbia, si! Sono indignata, arrabbiata, ho un tumulto dentro indomabile e non so quando smetterò di dargli voce. Voglie è vicina col cuore a tutte le famiglie colpite da questo lutto indicibile. Donate il sangue, fatelo, se potete fatelo!! La Puglia è stata colpita al cuore, e adesso questo cuore senza un pezzo, dovrà piano piano riprendere il suo ritmo e tornare a battere, è difficile, non è impossibile, ma è difficile. Non era un terremoto, uno tsunami, un disastro ambientale, ma qualcosa che poteva evitarsi, rifletteteci e levatevi i prosciutti dagli occhi. Non deve e non può sempre accadere qualcosa di terribile perchè qualcos'altro, di marcio nelle istituzioni cambi. Che quelle povere anime, che hanno vissuto l'orrore e lo smarrimento, ora, riposino in pace. FORZA PUGLIA MIA!!!!

martedì 5 luglio 2016

Lettera a Francesca.












Ciao Francesca,
... Forse sarebbe stato meglio se fossimo stati amici. Un amico è quel qualcuno che mentre tutto il resto scorre e cambia, rimane fermo. Amici si, senza passione, senza desideri da erezione ed eccitazione. Avrei voluto non averti vista, non averti incrociata, perchè mi sono trovato in quel posto dieci minuti prima, che tu ci mettessi piede, o dieci minuti dopo, quando tu eri già andata via. Avrei voluto non vederti entrare in quel caffè, avrei voluto non provare quella sensazione che mentre tu varcavi la soglia, tutti gli altri io non li vedevo nemmeno, avrei voluto non imbattermi nel tuo sguardo di occhi puliti e brillanti, avrei voluto non sentire quel profumo sensuale che ti copriva la pelle, avrei voluto non vederti mai. Forse adesso sarebbe più facile dimenticare la tua immagine che mi invade. Avrei voluto non notare le tue gambe perfettamente accavallate in quel caffè, che se solo le avessi spostate o mosse, io non avrei più respirato, avrei voluto che non sfiorassi mai la mia bocca di uomo fragile desideroso di baci e di attenzioni dimenticate. Avrei voluto che tu restassi una sconosciuta senza nome, mai incontrata, che qualcuno, forse un amico, un conoscente, un giorno mi avesse detto, ah ma tu la conosci Francesca?... Ed io avrei risposto di no, senza curarmi di sapere chi tu fossi, forse non mi sarebbe mai importato. Avrei voluto che quel giorno di Maggio tu non fossi mai entrata nella mia vita, avrei voluto non stringere quella mano esile e pallida in una stretta forte e dirti ciao.
Avrei voluto quel giorno avere tante cose da fare, l'agenda piena di appuntamenti, tanto da non avere tempo neanche per quel caffè. Avrei voluto che la mia strada non avesse mai incrociato la tua. Soltanto così io sarei rimasto solo Carlo e tu solo Francesca. E Carlo e Francesca non si sarebbero magari mai incrociati di certo. Potevamo essere sconosciuti che abitano nello stesso posto senza incontrarci mai, o essere amici. Avrei voluto non provare mai eccitazione, attrazione per te, avrei voluto pensare quando ho stretto la tua mano per conoscerti, che non mi piacevi, che non avevo un desiderio sessuale nei tuoi riguardi, che magari ti avrei incrociata altre volte, e che tra un caffè e una chiacchera saremmo diventati amici, ci saremmo raccontate le cose, e poi sempre più amici, senza impegno. Ti avrei chiamata per dirti che avevo semplicemente voglia di vederti, di bere un caffè, di andare a un concerto, di mangiare un panino e bere una birra seduti su una panchina del parco, di andare al mare, di vederti in costume, con la consapevolezza che non ti avrei mai baciata, o toccata. Si saremmo stati ottimi amici io e te, senza, invece complicare tutto, innamorarsi e poi perdersi. Non ti vedo più, non ti incontro, la mia memoria ha smarrito la tua immagine, non me lo figuro più il tuo volto, non so come stai, se ridi, se sei felice, se fai l'amore con un altro, se lo fai come lo facevi con me, e mi sembra di diventare matto se ci penso, e allora non ci penso, ci provo almeno. Potrei comporre il tuo numero e dirti << Ciao Francesca, come stai>>?.. Poi però il coraggio non ce l'ho. Ho provato a comporre il tuo numero, ricordo la sequenza numerica a memoria, ma poi, quando si trattava di dirti ciao, so che la voce non sarebbe venuta fuori e avrei fatto la figura dell'imbecille. Forse spero in cuor mio di rincontrarti, spero che sarai libera una sera, spero che potrai perdonarmi, perchè sono stato un cazzone a lasciarti andare.
Le cose si capiscono sempre quando sarebbe meglio ormai non si capissero più, tanto se non hai capito quando c'era da capire, il momento è passato, quindi che senso ha che questa magica intuizione arrivi a scoppio ritardato?... Meglio che non arrivi mai. 
Mentre ti scrivo questa lettera mi sento stupido, però dei brividi felici mi corrono sulle braccia, non lo conosco più il tuo indirizzo, dovevi trasferirti, ma lo troverò, come troverò il coraggio di spedirti questa lettera, che forse ignorerai, strapperai, ci riderai su. Il pensiero che tu mi legga tra le mani, quelle mani che ho scordato, mi fa un certo effetto, come se le tenessi ancora strette. Ciao Francesca, ti amo.
Tuo per sempre, Carlo.

giovedì 23 giugno 2016

lettura light e lettura impegnata.

Un mese fa curiosando in libreria alla ricerca di nuove letture, ho scovato un libro, che probabilmente non avrei mai acquistato dal titolo, se non come lettura easy sotto l'ombrellone, per una sola ragione, mi appassiono alle letture impegnate.. 

Felice di sbagliarmi, Federica Bosco è stata una piacevolissima sorpresa e la protagonista ha una personalità molto interessante. Marica e' fragile, ingenua, intrepida e determinata, ha 31 anni, vive a New York, è cronicamente single e ha un sogno nel cassetto : diventare una scrittrice. 
In un unico volume si condensa l'irresistibile trilogia delle sue disavventure, una storia toccante, leggera di sentimenti e desideri tutti al femminile, condita da un'ironia irriverente e frizzante sempre in grado di sorprendere. Marica è una donna arguta, intelligente, che crede di bastare a se stessa, che è così abituata a contare sulle proprie forze e a cavarsela da sola, che puntualmente, forse per paura di poter contare anche su qualcun'altro, un uomo, si infila in relazioni sbagliate e impossibili destinate a non durare, in relazioni amorose dove lo scambio è malamente bipartito, lei da, ma non riceve, o meglio non riceve quanto in amore si dovrebbe ricevere, quindi continua, suo malgrado, forse inconsapevolmente ad elemosinare questo tanto agognato amore, finchè tutto dal caos, quasi naturalmente in un modo del tutto inaspettato prende forma e assume ordine. Questa lenta, sofferta, presa di consapevolezza viene però vissuta con un' autoironia intelligente che soggioga il lettore tenendolo lì attaccato alla lettura, fino a diventarne avido. Le sue vicissitudini amorose, lavorative, familiari vengono offerte al lettore in uno stile generoso di particolari,  di viaggi introspettivi, irriverenza, ironia tagliente, il tutto fa di questo corposo volume una miscela esplosiva fino a giungere al tanto atteso "the end" che non delude di certo, ma vi consiglio di scoprirlo.

L'ordine di disposizione delle mie letture è casuale, non rispecchia in modo alcuno l'ordine reale in cui si sono susseguite, è una raccolta dettata dalla spontaneità del ricordo, e i ricordi non sempre seguono un ordine.
Qualche anno fa mi sono accostata alla lettura di un libro molto interessante, dalla copertina rossa ritraente una foto di un tipo dallo sguardo inquieto e la fronte crucciata, l'autore, suppongo, un tale Mordecai Richler, scrittore e sceneggiatore canadese. 
Ero un po' restia ad avvicinarmi a questa lettura, e spinta da pareri positivi di chi mi aveva preceduta nella lettura, per rinfocolare un entusiasmo sopito già dopo l'acquisto, mi ci sono buttata senza starci a pensare troppo, e da lì, da un tuffo scevro da calcoli e previsioni la scoperta!
L'approccio con le prime cento pagine si è rivelato devastante, un ginepraio di flash-back sfuggente ad ogni inquadratura o collocazione spazio-tempo possibile, ero quasi convinta ad abbandonarlo, ma ho pazientemente desistito e tentato di utilizzare una bussola per recuperare trama e personaggi, in un continuo andirivieni tra presente, passato e futuro.  
Devo ammettere che sono contenta di non aver gettato la spugna, è stato un accattivante compagno quel Panofsky, l'autore intendo. Ridevo divertita quasi ad ogni pagina, dopo le prime cento, e poi questo libro qui, emoziona e anche tanto.  Narra la vita strampalata, esilarante, sregolata, fatta di un pò tanto wisky di buona qualità, s'intende, di un certo Barney Panofsky, canadese,  un ricco ebreo, produttore televisivo di successo,  che passati i 60 anni decide di scrivere un'autobiografia ( per dare la sua versione dei fatti agli accadimenti che hanno portato alla morte del suo carissimo amico Boogie Moscovitch) e liberarsi così dell'accusa di omicidio che gli viene mossa nel libro " il tempo, le febbri" dallo scrittore Terry Mclver. Mordecai racconta la vita di Barney, vissuta sempre all'ultimo respiro, fatta di esperienze e incontri straordinari, tre mogli, la prima la pittrice Clara Charnofsky, morta suicida a Parigi, la seconda " ciarliera", frivola e ricca ereditiera, e poi lei l'elegante, intelligente e carismatica Miriam  che Barney incontra al suo matrimonio, e di cui non riesce più a fare a meno, tanto che la insegue quel giorno stesso, abbandonando il suo ricevimento di nozze, sul treno che lei la futura terza signora Panofsky aveva preso per tornare nella sua città. Miriam, il vero grande amore di Barney,"la donna che l'età non può sciupare nè l'abitudine guastare", lei che dopo aver strenuamente corteggiato, inseguito, diventa sua moglie, e lui continua ad amarla in un modo totalitario, assoluto, covando di continuo trappole per gli uomini che le ronzano attorno, uno in particolare, per il quale poi lo lascerà. 
Dapprima sventolerà  due biglietti per Parigi, cercherà di convincerla a partire con lui (lei non ci sta, ma le sarebbe molto piaciuto se lui avesse insistito un po’ di più, come scopriamo più avanti). Dopo seguirà  l’invio, a cadenza settimanale, di rose rosse a stelo lungo, e poi finalmente lei accetterà  un invito a pranzo in un bell’albergo di Toronto. E da qui il primo mantra di Barney “Guardale gli occhi, Barney, ma non le gambe o le tette”   Di fronte a Miriam, Barney ha la salivazione azzerata, cerca invano “la battuta fulminante, l’aforisma brillante,  ma quel che gli esce è solo un: “Ti piace vivere a Toronto?” 
Miriam e Barney vivranno per molti anni felici e contenti, facendo tre figli, crescendoli, scopando come ricci. Poi lei lo lascerà, ne scopre un tradimento che non nasce per mancanza di amore, ma per l'insinuarsi del dubbio, la mancanza di fiducia, che piano piano vanno logorando il rapporto. Lui è un uomo buono, un uomo che ama davvero la sua donna sinceramente, ma proprio per questa ragione, per cercare di preservare questo amore, finisce invece per  rovinarlo. Diciamo che il perno del romanzo è questo qui, il  resto lo lascio scoprire a voi, come l'accusa di omicidio del suo amico Boogie, ma questa è un'altra storia nella storia. Ho amato moltissimo questo personaggio, è stato difficile staccarmene, abbandonarlo, mi ha fatto troppo ridere con i suoi mantra,  è uno di quei libri che ti resta accanto, un pò come Barney, seduto ad un bar con l'aria sorniona che sorseggia un buon wisky. 
Dal momento che per me è solo un questione di cut&paste, non ho assolutamente problemi a incollare qui l’intero capitolo (in italiano) de l'appuntamento con Miriam da La versione di Barney. E così anch’io do il mio contributo alla comunità. A parte tutto, non so se il brano, presentato così fuori contesto, possa avere la stessa forza che ha all’interno del libro. Quel che posso dire è che quando l’ho letto la prima volta non la smettevo di ridere, ho riso tantissimo. E ho pensato fosse grandioso.
“Lascia perdere, brutta troia imperialista” le dissi. “Non tradisco Miriam neppure con mia moglie, perché dovrei farlo con te?”. Mi giravo e mi rigiravo nel letto. Bada, fissala dritto in quei meravigliosi occhi blu, ma non guardarle le tette. E neanche le gambe, brutto animale. Ripassai qualche aneddoto che immaginavo le sarebbe piaciuto, e che forse mi sarebbe valso il primo premio, la comparsa di quella certa fossetta; e riesumai alcune storielle edificanti che guarda caso mi avrebbero messo in buona luce, ma poi le eliminai arrossendo. Sperando di calmarmi i nervi mi accesi un Montecristo; dopodiché, terrorizzato dall’alito cattivo, corsi in bagno a lavarmi i denti, e persino la lingua. Tornando a letto, sfiga volle che passassi davanti al minibar. In fondo, pensai, aprirlo non mi ammazzerà, magari mi sgranocchio un salatino. Forse mi faccio anche un goccetto, giusto uno, che sarà mai. Bene, alle tre di notte notai con raccapriccio che sul tavolo di vetro erano allineate dodici mignon vuote di whisky, vodka e gin. Ubriacone. Smidollato. Detestandomi dal profondo del cuore, mi infilai a letto e cercai di rivedere Miriam al mio matrimonio, la sua grazia infinita in una nuvola di chiffon azzurro. Dio, quegli occhi. Quelle spalle nude. Oddio, e se quando le vado incontro si accorge che ho un’erezione? A titolo precauzionale, mi ripromisi di farmi una sega subito prima di pranzo. Quindi chiusi gli occhi, ma non per molto. Un attimo dopo schizzavo già fuori dal letto imprecando contro me stesso: non ti sei svegliato, brutto idiota, e adesso farai tardi. Mi vestii come un forsennato – fino a quando, in uno sprazzo di lucidità, mi venne in mente di dare un’occhiata all’orologio. Le sei e mezzo. Merda, merda e merda. Mi spogliai, mi feci una doccia, la barba, e poi mi rivestii. Passando davanti alla Prince Arthur Room vidi che apriva solo alle sette per la colazione, e decisi di andare a fare quattro passi fuori. Al ritorno dissi al maitre: “Ho riservato un tavolo per due a pranzo. Volevo assicurarmi che fosse vicino alla finestra”.
“Mi spiace, signore, ma temo che quelli vicino alla finestra siano tutti presi”.
“Voglio quello là” feci allungandogli un ventone. Tornato in camera vidi la lucina rossa del telefono che lampeggiava. Mi prese quasi un colpo. Non può. Ha cambiato idea. “Non esco a pranzo con maschi adulti che si masturbano nei bagni degli alberghi”. Ma la telefonata era della Seconda Signora Panofsky. La richiamai a casa. “Hai dimenticato il portafoglio sul tavolo dell’ingresso” mi disse.
“Ma figurati”.
“Ce l’ho in mano, con tutte le carte di credito”.
“Per le buone notizie si può sempre contare su di te”.
“Adesso è colpa mia?”.
“Mi arrangerò lo stesso” conclusi riagganciando. Poi, preso da un repentino attacco di nausea, mi precipitai in bagno. Caddi in ginocchio, con la faccia sulla tazza, e vomitai non so quante volte. Congratulazioni, Barney, adesso puzzerai come una fogna. Mi spogliai di nuovo, feci un’altra doccia, mi spazzolai i denti fino a consumare tutto lo smalto, feci una quantità impressionante di gargarismi, mi cambiai camicia e calzini e voilà, eccomi di nuovo in strada. Ma dopo un centinaio di metri ricordai di aver detto al maitre che alle dodici e cinquantacinque in punto volevo una bottiglia di Dom Pérignon al tavolo. Esibizionista. Una donna del livello di Miriam la troverà una cafonata pazzesca. E un’allusione pesante, anche, come se volessi sedurla lì per lì. “E tu credi che se mi compri una bottiglia di champagne io ti zompo nel letto?”. Nulla di più remoto da me di tali pensieri impuri. Giuro. Morale, tornai in albergo e dissi di lasciar perdere lo champagne. E se poi, incredibile ma vero, avesse accettato di salire in camera? In fondo ho delle buone qualità. – Questo è un quiz, Panofsky. Segna con una crocetta tre tue buone qualità fra le seguenti dieci. – Vai a farti fottere. Salii a controllare se in camera era tutto a posto, e scoprii che il letto era ancora sfatto. Chiamai subito la donna delle pulizie per protestare, e il servizio in camera per ordinare una dozzina di rose rosse e una bottiglia di Dom Pérignon con due calici.
“Mi scusi, Mr Panofsky, ma non aveva annullato l’ordine per lo champagne?”.
“Ho solo detto che non volevo la bottiglia nella Prince Arthur Room, ma ne voglio invece una fredda in camera, non prima delle due. Sempre che non sia troppo disturbo, naturalmente”. A mezzogiorno tra i piedi in fiamme, il mal di testa, la stanchezza e la tensione ero ridotto a uno straccio. Decisi quindi che quello che mi ci voleva era una bella tazza di caffè al Roof Bar. Solo che una volta lì, d’istinto, ordinai un Bloody Mary. Mi ci trastullai per un po’, fino a quando scoprii che mancavano ancora tre quarti d’ora all’appuntamento, e che nel bicchiere era rimasto solo un po’ di ghiaccio. A quel punto ne ordinai un altro, e intanto cavai di tasca la lista con gli argomenti di conversazione che mi ero preparato. Hai visto Psycho? Hai per caso letto Il re della pioggia? Cosa ne pensi del vertice Adenauer-Ben Gurion a New York? Secondo te Caryl Chessman meritava la sedia elettrica? Dopo il terzo Bloody Mary mi sentivo più sicuro, e diedi un’occhiata all’orologio. Le dodici e cinquantacinque. Mi riprese il panico. Porca miseria, mi ero dimenticato di masturbarmi, e ormai era troppo tardi. E le pezze d’appoggio. Le avevo lasciate giù: sapendo che suo padre era stato un socialista, mi ero portato dietro La libertà nello stato moderno di Laski, e naturalmente l’ultimo numero del “New Statesman”. Feci una corsa in camera, infilai il “New Statesman” in tasca e mi precipitai al mio tavolo nella Prince Arthur Room. All’una e zero due ecco entrare Miriam, preceduta dal maitre. Mi alzai per salutarla, riuscendo a nascondere sotto il tovagliolo di lino una tumescenza francamente imbarazzante. Aveva un provocante cappello di pelle nera, un vestito di lana dello stesso colore e i capelli più corti di quanto li ricordassi. Era splendida. Avrei voluto dirle qualcosa di carino, ma non volevo pensasse che ci stavo già provando. Così mi limitai a un “Sono felice di vederti”, seguito da un “Bevi qualcosa?”.
“E tu?”.
“Bah, io di solito pasteggio a Perrier, ma forse oggi bisognerebbe festeggiare. Che ne diresti di una bottiglia di champagne?”.
“Be’…”. Chiamai il cameriere. “Una bottiglia di Dom Pérignon, per favore”.
“Ma l’ha appena…”.
“Le spiacerebbe portarmi una bottiglia di champagne, per favore?”. Accendendomi una Gitane dopo l’altra cercavo disperatamente di ricordarmi qualcuno dei bons mots che avevo provato e riprovato fino alla nausea, ma non andai oltre un “Che caldo, eh?”.
“Non trovo”.
“Neanch’io”.
“Ah”.
“Haipercasovisto Il re della pioggia?”.
“Scusa?”.
“Il re… cioè, Psycho”.
“Non ancora”.
“Secondo me la scena della doccia… no, dimmi cosa ne pensi tu”.
“Be’, prima di pensarne qualcosa dovrei vederla”.
“Giusto. Certo. Magari riusciamo a beccarlo stasera…”.
“Ma tu lo hai già visto”.
“Ah già. Vero. Adesso non ci pensavo”. Che cazzo, dove è andato a prenderlo lo champagne, a Montreal? “Secondo te,” le chiesi cominciando a sudare “Ben Gurion ha fatto bene ad accettare l’incontro con Eisenhower a New York?”.
“Con Adenauer, vuoi dire”.
“Certo, Adenauer”.
“Scusa, ma mi hai invitato per un’intervista?” mi chiese. Ed eccola lì, la fossetta. Stavo per morire, ed essere assunto direttamente in cielo. Non azzardarti a posare lo sguardo sul suo seno. Non staccare gli occhi dai suoi. “Ah, eccolo che arriva”.
“Il servizio in camera chiede se conferma l’ordine per l’altra…”.
“Versi, per favore. Versi e basta”. Brindammo. “Non sai quanto mi hai fatto felice liberandoti oggi”.
“Ma dài, sei stato gentile tu a trovarmi un buco fra un appuntamento e l’altro”.
“Veramente io sono venuto apposta per vedere te”.
“Mi sembrava che avessi detto…”.
“Come no, ho una riunione. E’ vero, sono qui per una riunione”.
“Barney, sei ubriaco?”.
“Assolutamente no. Credo che dovremmo ordinare. Lascia perdere i menu a prezzo fisso, prendi tutto quello che vuoi. Certo qui dovrebbero mettere l’aria condizionata” dissi allentandomi la cravatta.
“Ma non fa caldo”.
“Sì che fa caldo. Cioè no, in effetti no”. Miriam ordinò la zuppa di piselli e io, chissà perché, quella di aragosta, che mi fa schifo. E mentre la Prince Arthur Room cominciava a basculare, cercavo disperatamente una battuta fulminante, un aforisma letale, capace di stendere Miriam e far impallidire il ricordo di Oscar Wilde. Risultato, mi sentii pronunciare le seguenti parole: “Ti piace vivere a Toronto?”.
“Mi piace il mio lavoro”. Contai fino a dieci, poi sparai: “Sto divorziando”.
“Oh, mi spiace”.
“Nonèchedobbiamoparlarneproprioadesso, mainsommavistochenonsonopiùunuomosposato, tudaorainpoiseiliberadivedermiancora”.
“Parli talmente in fretta che non riesco a seguirti”.
“Ho detto che presto non sarò più un uomo sposato”.
“E’ ovvio, dal momento che stai divorziando. Spero solo che tu non lo abbia fatto per me”.
“Non avevo scelta. Io ti amo. Disperatamente”.
“Barney, ma se non mi conosci quasi”. E qui al nostro tavolo si materializzò – non proprio come lo spettro di Banquo, ma quasi – quello Yankel Schneider che non vedevo da quando eravamo insieme alle elementari. Quando si dice la sfortuna. “Tu sei il bastardo che da bambino mi ha rovinato la vita. Mi facevi il verso perché balbettavo” tuonò.
“Scusi, ma che cosa sta dicendo?”.
“Lei ha la disgrazia di essere sua moglie?”.
“Non ancora” precisai.
“Per favore” disse Miriam.
“La signora non c’entra, chiaro?”.
“Mi sfotteva perché balbettavo. Mi faceva continuamente il verso, e io la notte, al buio, mi strappavo i capelli dalla disperazione. Sono quasi diventato matto. Mia madre doveva mandarmi a scuola a calci. Non per modo di dire, sul serio. Perché lo facevi?”.
“Miriam, non ho mai fatto nulla del genere”.
“Che gusto ci provavi?”.
“Veramente non mi ricordo affatto di lei”.
“Per non so quanto tempo ho sognato di essere in macchina, di vederti attraversare la strada davanti a me e di stirarti. Mi ci sono voluti otto anni di analisi per capire che non ne valeva la pena. Tu sei pattume umano, Barney” disse. Poi diede un ultimo tiro di sigaretta, me la buttò nella zuppa e se ne andò.
“Cristo” dissi.
“Pensavo che lo avresti preso a pugni”.
“Non davanti a te, Miriam”.
“Secondo alcuni hai un pessimo carattere, e quando hai alzato un po’ troppo il gomito, come ora – il che fra parentesi non è molto gratificante -, cominci a cercar rogna”.
“”Alcuni” chi, McIver?”.
“Si dice il peccato ma non il peccatore”.
“Mi sento poco bene. Sto per vomitare”.
“Ce la fai ad arrivare in bagno?”.
“Che disastro”.
“Vuoi…”.
“Devo stendermi”. Mi accompagnò in camera, dove caddi subito in ginocchio e vomitai nella tazza, mollando una scoreggia devastante. Volevo essere sepolto vivo. O fatto a pezzi. Dilaniato da quattro cavalli da tiro. Miriam bagnò un asciugamano, mi pulì la faccia e mi accompagnò fino al letto.
“Che umiliazione”.
“Ssh”.
“Adesso mi odi e non mi vorrai rivedere mai più”.
“Sta’ un po’ zitto” disse. Poi mi passò dì nuovo sulla faccia l’asciugamano umido e mi fece bere un bicchier d’acqua, reggendomi la testa con la sua mano fresca. Decisi che non mi sarei mai più lavato i capelli in vita mia. Mi coricai e rimasi per un po’ a occhi chiusi, sperando che la stanza smettesse di vorticare. “Tra cinque minuti starò benissimo. Ti prego, non andartene”.
“Prova a dormire un po’”.
“Ti amo”.
“Sì, sì, va bene”.
“Ci sposeremo e avremo dieci figli”. Al risveglio, un paio d’ore dopo, la vidi lì in poltrona, le lunghe gambe accavallate, che leggeva Corri, coniglio. Era talmente assorta che rimasi in silenzio, approfittandone per contemplare la sua infinita bellezza. Avrei pianto. Il cuore era come impazzito. Pensai che se in quel preciso istante il tempo si fosse fermato lo avrei trovato giusto. Alla fine dissi: “Lo so che non vorrai vedermi mai più. E non posso darti torto”.
“Adesso ti ordino toast e caffè, e se non ti spiace mi faccio portare un tramezzino al tonno. Ho fame”.
“Devo puzzare da far schifo. Giurami che se mi butto sotto la doccia non te ne vai”.
“Vedo che mi consideri una ragazza assai prevedibile”.
“Come puoi dire una cosa del genere?”.
“Eri sicuro che sarei salita in camera”.
“Assolutamente no”.
“E allora per chi erano lo champagne e le rose?”.
“Quali?”. Me le indicò.
“Ah, quelle”.
“Già, quelle”.
“Non so proprio cosa mi prende, oggi. Non sono io. Non ci sto con la testa. Adesso chiamo il servizio in camera e faccio portar via tutto”.
“Lascia perdere”.
“Lascio perdere”.
“E adesso di cosa parliamo? Di Psycho, o del vertice Ben Gurion-Adenauer?”.
“Miriam, non voglio mentirti. Né ora, né mai. Yankel ha detto la verità”.
“Yankel?”.
“Il tizio che è venuto prima al tavolo. Mi piazzavo davanti a lui in cortile e gli dicevo: “Hai fatto pi-pi-pipì a-a-a letto co-co-come al so-so-solito, brutto ri-ri-ritardato?”. E ogni volta che in classe si alzava, terrorizzato, per rispondere a una domanda, io cominciavo a ridacchiare prima ancora che aprisse bocca, e lui scoppiava regolarmente in singhiozzi. E io: “U-u-un ve-ve-vero fi-fi-figurone, Yankel”. Perché facevo una cosa così orrenda?”.
“Non pretenderai una risposta da me, spero”.
“Miriam, se solo sapessi quanto sei importante per me…”. E all’improvviso provai una specie di strana sofferenza, o meglio, di strana gioia. Era come se il ghiaccio che mi ricopriva il cuore si stesse spaccando; l’inizio del disgelo, una cosa così. Mi misi a parlare a macchinetta, inframmezzando – temo alla rinfusa – le disavventure della mia infanzia alle storie di Parigi. Raccontavo di Boogie che comprava una dose, e subito passavo all’indifferenza di mia madre nei miei confronti. Le dissi di come Yossel Pinsky fosse sopravvissuto ad Auschwitz, e di come ora trattasse affari in un bar di Trumpeldor Street, a Tel Aviv. Mi sembrava imprescindibile farle sapere che a suo tempo avevo trafficato in anticaglie egizie di contrabbando. E che ballavo il tip tap. Da una rievocazione delle gesta di Izzy Panofsky alla Buoncostume passai alla lettura di Terry McIver nella libreria di George Whitman, quindi la intrattenni su Hymie Mintzbaum. Le raccontai della posta pneumatica che mi era arrivata troppo tardi, di come Clara fosse andata incontro a una morte prematura che forse si sarebbe potuta evitare, e ammisi che sognavo ancora il suo cadavere decomposto.
“E così il Calibanovitch di quel famoso verso saresti tu”.
“Sì, sarei io”. Le spiegai che mi ero impegolato nel matrimonio con la Seconda Signora Panofsky in spregio a Clara, anzi no, per senso di colpa, anzi no, perché ancora non le avevo perdonato il suo giudizio su di me. Ma giurai di non avere mai amato nessuno fino a quando non avevo incontrato lei, Miriam, al mio matrimonio. Poi mi resi conto che fuori era sceso il buio, e la bottiglia di champagne era finita.
“Andiamo a cena?” le chiesi.
“Prima magari facciamo due passi”.
“D’accordo”. Toronto non mi è mai piaciuta, con la sua aria tronfia da reparto contabile del paese. Ma quella sera tiepida di inizio maggio, nel caos di Avenue Road all’ora di punta, mi sentivo particolarmente euforico e conciliante. Camminavo a un palmo da terra. Ma sì, in fondo gli alberi erano carichi di gemme. E d’accordo, i fruttivendoli verniciavano di arancio o di viola le margherite esposte fuori dai negozi, però i mazzi di narcisi erano incontaminati. Alcune delle segretarie che camminavano a due a due col vestito estivo avevano un’aria graziosa. Sulle ali dell’entusiasmo sorrisi un po’ troppo a una giovane madre che spingeva il passeggino – almeno a giudicare dall’occhiataccia che mi rivolse e da come, di colpo, accelerò il passo. E neppure il solito, sudatissimo maratoneta in braghette corte che saltellava sul posto a un semaforo riuscì a rovinarmi l’umore. Anzi, lo abbordai con un “Bella serata, vero?”, che lo spinse immediatamente a controllare se il portafoglio fosse ancora al suo posto. E forse non avrei dovuto fermarmi ad ammirare l’Alfa Romeo nuova di zecca parcheggiata davanti a un antiquario, dato che il legittimo proprietario si precipitò fuori con aria truce. Cammina cammina arrivammo all’entrata di un piccolo parco, dove pensavo avremmo potuto fermarci a riposare su una panchina. Ma il cancello era chiuso col lucchetto, e su un cartello si leggeva: “VIETATO CONSUMARE PASTI O BEVANDE, ASCOLTARE MUSICA e INTRODURRE CANI”.
“A volte” dissi a Miriam prendendola per mano “penso che lo spirito di questa città, la sua vera essenza, sia il terror panico che qualcuno, da qualche parte, possa essere felice”.
“Vergognati”.
“Perché?”.
“Perché hai usato il saggio sul puritanesimo di Mencken senza nemmeno citare la fonte”.
“Davvero?”.
“Come fosse farina del tuo sacco. Non avevi promesso di non mentirmi mai?”.
“E’ vero. Scusa. Cominciamo da adesso”.
“Io ci sono cresciuta, tra le bugie, e non le tollero più”. Improvvisamente serissima, Miriam mi parlò di suo padre, il tagliatore di diamanti e sindacalista. Che lei aveva adorato, considerandolo un meraviglioso sognatore, fino a quando non aveva scoperto la sua seconda vita. Era fissato con le donne; si faceva tutte le operaie che gli capitavano a tiro, e passava i sabati sera nei locali più infimi. Per sua madre era stato un tormento. – Come puoi sopportarlo? le aveva chiesto Miriam un giorno. – E cos’altro posso fare? aveva risposto lei, chinandosi sulla macchina da cucire. La madre di Miriam era poi morta di cancro all’intestino, fra sofferenze atroci. “Gliel’ha fatto venire lui”.
“Non credi di esagerare?”.
“No. E non permetterò a nessun uomo di fare lo stesso con me”. Non ricordo esattamente cosa mangiammo, né dove. Mi pare in una bettola dalle parti di Yonge Street, seduti fianco a fianco, con le gambe che si toccavano. Però ricordo bene che lei mi disse: “Non ho mai visto nessuno così infelice al suo matrimonio. Ogni volta che alzavo gli occhi mi stavi guardando”.
“Come l’avresti presa se fossi rimasto sul treno?”.
“Non sai quanto ho sperato che lo facessi”.
“Davvero?”.
“Be’, stamattina sono andata dal parrucchiere, il vestito l’ho comprato apposta, e non mi hai neanche detto che sto bene”.
“No. Sì. Ma ti trovo splendida, Miriam, giuro”. Quando arrivammo sotto casa sua in Eglinton Avenue erano ormai le due. “Scommetto che fingerai di non voler salire”.
“Sì. No. Aiuto, Miriam”.
“Mi devo alzare alle sette”.
“Be’, allora…”.
“Allora vieni” disse prendendomi per mano.
Cmq io sto libro qui l'ho amato e lo amo ancora. E posso assicurarvi che è sempre una lettura piacevole, esilarante, divertente, è un libro che ti fa morire dal ridere da sola. E che ti fa capire quanto un uomo " preso" possa essere nella sua fragilità e imperfezione, goffo e adorabile, quanto stronzo buono e vittima sacrificale. Ma è concesso solo al Panofsky.
Buona Lettura da Voglie!!!!!!


lunedì 20 giugno 2016

Gioca a jenga e lassa fare!


Cioè datevi na regolata co sti rapporti ragazzi miei !!! Non si può più sentire, pare quasi un bollettino di guerra senza morti, che poi i morti ci sono davvero, perchè le persone che vengono fuori da queste guerre personali, da questi disastri emotivi, sono gente viva solo all'apparenza, dentro sono morti che camminano. 
Intorno a me, è quasi un mese, che sento di storie che finiscono dopo poco, dopo anni, dopo 4, dopo 10, dopo 2, dopo 5! Di amori in corso incontro ad elettrocardiogramma piatti.
Tanta amarezza, tanta tristezza, tanta delusione, sentimenti che ammalano l'anima, gelano gli entusiasmi, terrorizzano di paura, ci fanno chiudere in noi stessi a doppia mandata, ci fanno smettere di credere che forse, ancora, possiamo tornare nuovi, possiamo amare, che è la cosa più semplice di questo mondo, è come un' addizione che fa 1+1 = 2. 
Un'addizione che noi complichiamo innestandoci su proporzioni, serie numeriche, strane sequenze matematiche incomprensibili, perdendo di vista solo e unicamente un' addizione semplice semplice. Ma dico io no?.. Già di per se la matematica è un casino, una volta tanto che vi capita un compitino semplice semplice come n'addizione, e non siete contenti?!! 
Quando anche il nostro Papa è arrivato a dire, piuttosto che fare disastri, evitate di sposarvi e andate a convivere, bè è chiaro che siamo alla frutta o magari già al dessert. 
Lo condivido a pieno il messaggio di Papa Francesco, Lui dice meglio fare rodaggio, imparare pian piano a gestire una convivenza, a capire se ci si può incastrare insieme, capire se ci si può assumere delle responsabilità, un impegno. Ma Papa mio, ma quale impegno, oggi la gente vede come un impegno anche il fatto di fare un pezzo di strada con qualcuno, che a un certo punto cambia rotta, le strade possono essere tante, la paura resta la stessa. Oggi imperversano i rapporti usa e getta, oppure vanno di moda gli esperimenti, proviamo e vediamo che succede??.. Disastri succedono, credete a me. Succede che uno lo sa già se tu gli piaci o no, se vicino a quel mi piaci campeggia anche un " abbastanza". Lo sa già, non ci prendiamo in giro, è chimica, passione, intesa, feeling, aver voglia di fare un passo, un gesto, di fare senza sentire quel senso di dover fare, che in questo campo qui, proprio non ci siamo. Ma come diavolo è che i nostri nonni avevano le idee così chiare, senza neanche portarsi a letto nessuno. Resta un mistero, o forse un assunto che ha dell'ovvio. Rifletteteci!!! 
A volte ci capitano tra le mani delle cose preziose, e forse tanta è la voglia di tenerle strette tra le dita che perderle è un attimo. Siamo degli infiniti casinisti, siamo analfabeti, non sappiamo leggere quasi mai cosa davvero ci abita in fondo al cuore, o forse preferiamo non farlo, diventa più comodo così. E funziona che un minuto prima avevamo qualcuno da incontrare per una birra, per una coccola, per uno scambio semplice, e poi un minuto dopo a quel tavolino ti ritrovi da solo a indagare nelle occasioni perdute. Basta così poco per tenersi qualcuno, solo che l'orgoglio ci fotte sempre.
Io di Voglie, però credo in una cosa e ci credo fermamente, finchè vivi e basta e ti affidi al " lassa fare", le cose si spiegano naturalmente, un fiore non fa niente, non pensa, non si complica l'esistenza al cubo, nasce, sboccia, vive, muore. Noi siamo artisti di primo livello a inquinare le nostre emozioni, a fare disastri, e tutto parte da un pensiero che abbiamo tirato fuori dal passato, o da una catastrofica proiezione futura che è solo nella nostra testa. Ma io dico no?.. Ma cosa vogliamo capire, cosa pretendiamo di capire, ma se a malapena capiamo di noi stessi?...  credo che le inquiniamo le nostre emozioni, le roviniamo con tutte le nostre dannate forze, ma spegni il cervello, fatti un tuffo da un dirupo e nuota senza posa, fatti una liberatoria corsa in moto e lasciati soggiogare dall'ebbrezza della velocità, scrivi un libro e lasciati sedurre, leggi storie d'altri, fai razzia in libreria, immergiti negli abissi, fatti il cammino di Santiago de Compostela, fai, agisci, occupati di qualcuno, che non sia tu, e solo tu, e sempre tu, sposta l'attenzione dalla tua testa, spegni sto cervello che va a mille e sai che fai??... Gioca a Jenga!!! In questo gioco serve equilibrio, zero proiezioni, zero pesi, zero, serve leggerezza ed equilibrio, gioca. Ti accorgerai che non puoi tenere in equilibrio tanti bastoncini su un legnetto solo, perchè se solo fai una mossa falsa l'impalcatura che hai messo su di legnetti ti cade addosso. E invece basta mettere un legnetto per volta, quelli tengono ed è mettendo un piccolo legnetto per volta che capirai come posizionare gli altri legnetti via via. E' così che funziona con le cose del mondo, che per un gioco del destino ci capitano tra le mani, e delle volte sono così preziose, che ce ne rendiamo conto solo dopo averle irrimediabilmente fottutamente perse. Vivete, viviamole, senza troppo costrutto mentale, in fondo oggi ci siamo!!!  Gioca a jenga, tieni in equilibrio le tue emozioni, non caricare troppi legnetti, e non ti figurare orchi e dinosauri di fuoco mentre giochi che te li divorano, perchè finirebbero per farlo davvero. Gioca, divertiti e basta!!! 

venerdì 17 giugno 2016

Voglie consiglia senza presunzione.

Leggere aiuta a tenere in piedi o quantomeno in equilibrio i propri sogni. Leggere un libro ti porta da qualche parte sempre, e delle volte un libro scelto a caso ti da proprio quelle risposte che stavi cercando. Ma non voglio farvi da Guru, tediarvi, o mostrarvi un qualche sentiero che conduce da qualche parte, non so nemmeno dove conducono le strade che imbocco io. Mi perdo, e a volte perdermi mi piace, mi spalanca orizzonti nuovi, che prima non vedevo. Perdersi ti disorienta, cerchi invano una bussola e continui a sentirti sempre più perso, non so che dirti, continua a vagare, come faccio io, prima o poi capirai qualcosa e ti ritroverai da qualche parte, forse il nostro, delle volte, è un percorso obbligato. Però una cosa, dall'alto della mia semplicità, entrando in punta di piedi in ognuna delle vostre vite, senza entusiasmi, oggi non ne ho per me, bè un consiglio che funziona con me, posso darvelo. Andate a correre con la vostra più bella playlist dei ricordi, nelle stradine di campagna, al mare, ma andate a correre, con i vostri neuroni tutti in subbuglio. Magari non sei dell'umore, sei pigro, ma corri, per te stesso, senti i tuoi muscoli, il cuore che batte più forte, ascolta il tuo sangue pulsare e la musica che impazza nelle tue orecchie. Ti sentirai sempre più vivo. E qui sulla tua playlist del cuore io proprio non so mettere bocca, magari sei uno rock come me, magari sei uno da musica pop, balcanica, house, italiana, commerciale, insomma scegliti tu lo sciroppo giusto per i tuoi neuroni e sciroppateli tutti, la musica compie tanti miracoli, magari anche il tuo. 
A me accade questo, che quando corro da sola, o leggo, delle cose intorno a te, senza che tu te lo aspetti, mai, sanno sussurrarti la frase giusta nel momento giusto e regalarti esplosioni di profonda consapevolezza. Credimi, è come se tanti improvvisi, inaspettati indicatori direzionali ti indichino la strada. 
Un altro consiglio, starai pensando, ma tu chi ti credi di essere, ma tu di Voglie, lasciami in pace e s tatte zitta, bè magari fai bene a pensarlo, ma credo dovresti invece ringraziarmi lettore a caso, e lo sai perchè?... Perchè io ti sto regalando dei piccoli ingredienti di felicità a gratis. Quindi statte zitto tu!!
Ecco, perdevo il bandolo della matassa, l'altro consiglio è leggi, leggi. Vai in libreria e lasciati attrarre, soggiogare, da qualche copertina che ti invita ad aprire quel libro e farti un viaggio, che non è il tuo, è come vivere, guardando da una vetrina, curioso, ciò che vivono altri, e vedere il dipanarsi delle loro vicende, e cogliere in quelle storie sempre un pò di ciò che ci riguarda. 
A me capita una cosa strana quando entro in libreria. Per prima cosa, è il libro a scegliere me. Poche volte ho le idee chiare. E poi stranamente mi accosto alla lettura proprio di quel libro di cui avevo bisogno e qualcosa, credete a me, succede sempre. Comunque come ogni anno sarà mia premura farvi un elenco dei libri consigliati da portare in valigia nelle vostre vacanze, da portare con voi sotto l'ombrellone, ma questo ve lo dirò forse, alla prossima puntata. 
Intanto ascoltate la musica, quella di altri, e a un tratto, accadrà che sentirete la vostra, anche se adesso siete sordi, non importa, ascoltate la musica, imbevete i vostri neuroni di note e di energia, e poi leggete, vivete le storie degli altri, e qualcosa, qualcosa, vi sorprenderà. Lasciatevi sorprendere, sempre. 

mercoledì 15 giugno 2016

Le Matrioske.








Siamo tutti uguali. 
Uguali perchè abbiamo carne che ci ricopre, ossa che ci tengono in piedi, abbiamo oceani di sangue ripartiti in rivoli di arterie e vene, abbiamo un cuore con un battito, abbiamo un cervello. Siamo esseri perfettamente funzionanti, nella maggior parte dei casi. Siamo tutti uguali, stessa struttura, stessa composizione, apparteniamo agli umani. E invece siamo tutti diversi. Siamo unici. Nell'intero universo mondo non c'è davvero nessuno che somigli a qualcun' altro, non c'è davvero nessuno che somigli a te. 
Siamo umani con un marchio di unicità, siamo sistemi unici e meravigliosi, complessi, o semplici, ma sistemi. Qualcuno muove le dita in un modo, quando ride fa quella strana fossetta sotto il mento, quando è triste o accigliato corruga la fronte e gli si aprono autostrade di rughe che lo percorrono. Nel modo di camminare, nel modo di muoverci, nel modo di ridere, nelle mani, nel modo di vivere, siamo esseri unici. Ognuno di noi è un mondo, un mondo che ha tanti mondi nascosti. Tanti strati di pelle. Un pò come le cipolle, se le scopri troppo, se le sbucci strato a strato, fanno piangere. 
Siamo come le matrioske, queste bambole russe che come scatole cinesi da collezione, di grandezza crescente, vanno a calzare perfettamente l'una nell'altra. Questa bella bambolina con la faccetta dolce, dipinta ad arte, racchiude in sè tante altre piccole bamboline via via più piccole, fino a quella minuscola, alta quasi un pollice. che sta in fondo e rappresenta il seme. E' risaputo dalla cultura generale che ogni matrioska contiene figure di tutti i tipi, donne, uomini, bambini, ed anche emozioni, come il bene, il male, la paura, il dolore, la gioia. La matrioska contiene tutto in uno spazio che occupa solo un posto all'apparenza. Tutti i pezzi restano nel grembo ed è per questa ragione che rappresenta come un cerchio magico che si apre con un pezzo chiamato " madre" e si chiude con un pezzo chiamato " seme". E' il simbolo della fertilità, della famiglia, della generosità come del resto qualunque figura materna. La sua corpulenza ricorda gli artefatti dell'arte antica, dalle veneri paleolitiche ad alcuni giocattoli orientali.
Ecco secondo me ognuno di noi è una matrioska. Con questa faccia bella e dipinta, che non tradisce imperfezione, con un sorriso finto, che occupa un solo spazio, quello di una donna in piedi. Ma quante matrioske si incastrano in quella donna?... Vive un rapporto tra microcosmo e macrocosmo, il principio e la fine, l'Alfa e l'Omega. L'io è molteplice. Ognuno di noi è una summa di tante cose, noi vediamo coi nostri occhi quello che appare in evidenza, vediamo la matrioska grande, quella che si regge in piedi in un unico spazio, poi però i comportamenti della gente, i fatti della gente, lasciano intravedere tutte quelle fottutissime matrioske incastrate perfettamente. Perchè nel tempo, crescendo, facendo esperienza, rapportandoci con la gente del mondo, cresce dentro di noi sempre più una consapevolezza maggiore di ciò che siamo, di ciò che non vogliamo, di accogliere ciò che pur scomodo ci viene a trovare. Ed è così che incastriamo una ad una, perchè diventiamo abili cesellatori, incastriamo una ad una piccole parti di noi che ci compongono, stando attenti a non fare intravedere le matrioske più piccole che stanno dentro, nascoste, giù più in basso, e che però fanno parte di ciò che siamo. La paura, le emozioni che rifuggiamo si depositano lì, come detriti sul letto di un fiume, le lasciamo lì queste emozioni scomode, perchè nessuno le veda, perchè se riuscisse a vederle, diventeremmo scomodi, meno perfetti, e rischieremmo di essere rifiutati. Ma questo è quello che ci illudiamo di pensare e basta. Perchè poi inevitabilmente le piccole matrioske, che abbiamo abilmente incastrato, qualcuno ce le smonta, come se conoscesse i tuoi meccanismi, un pò come quando pensi di essere invincibile, di non poter soffrire più, di non poterti innamorare più, e invece arriva qualcuno che non ti aspetti che disinnesca le tue difese, che ti scopre strato a strato. E lì le tue matrioske te le vedi tutte insieme come il collage della tua vita nascosta. 
E in fondo che male c'è, capita. Tu stai attenta a non mostrarti, dici e non dici, fingi, ti proteggi, chiami in soccorso la matrioska di facciata e ti ripeti che è tutto apposto, che nessuno ha toccato veramente le tue paure, che nessuno ha visto quelle parti fragili, che nessuno ha capito cosa ti abita veramente dentro. Più soffriamo nella vita di tutti i giorni, nelle storie di tutti i giorni e più collezioniamo matrioske via via più piccole, per nascondere noi stessi sempre più giù in fondo, e releghiamo a chi ci incontra solo pezzi depurati e confezionati ad arte di quello che non siamo. Poi però qualcosa, un incontro che non ti aspetti, qualcuno che forse ti sfiora appena, senza toccarti davvero, perchè tu non ce la fai a permetterglielo, o il discorso di un passante, qualcosa, un emozione, una parola ti si infila attraverso tutti gli strati di pelle che hai, quasi conoscesse la strada che porta alle tue paure, affonda le mani nelle tue matrioske e le smonta, qualcosa o qualcuno che forse non ne è nemmeno consapevole, certe cose capitano, come la pioggia col sole, qualcuno ti scopre strato a strato, fino al tuo seme. Ed è li', proprio lì giù in fondo che sei vera, che sei veramente quella che ti abita. Voglie vi consiglia di tenervele le vostre matrioske. Vi aiutano, vi proteggono, vi evitano di soffrire, un pò come quelle parti stronze che sbucano all'improvviso, e quindi vi sentirete sempre più forti e meno vulnerabili, vincenti, ma vi evitano anche di avvicinarvi a qualcuno e in tutta semplicità di amarlo. Perchè io penso che possiamo concederci anche il lusso di amare qualcuno, qualcuno che non ha forse niente di speciale, ma che lo è solo per noi, anche tenendoci dentro le nostre matrioske, finchè forse smetteranno di avere potere. Bukowsky il dannato, lo sboccato, l'uomo, lo scrittore, conoscitore dell'animo umano, e delle umane fragilità e debolezze, chi più imperfetto e fragile di lui,  diceva : " Drink from the well of yourself and begin again!!!

mercoledì 8 giugno 2016

L'alter ego.


Chi è la penna del blog? Voglie Letterarie"?... L'alter ego? 
Bella domanda, la blogger si mostra, si palesa al web, si racconta, racconta, fantastica, inventa, viaggia, a volte restando nello stesso posto, ha una lente diversa attraverso cui guarda alle cose, dispensa emozioni. Per essere una blogger devi avere un'anima se dark o white poco conta, ma devi avere un anima, quella di Voglie credo sia nera, deep dark inside e rock.
Voglie è la blogger, e fa un lavoro, ha un profilo che voi conoscete benissimo, e spero vi diverta, vi distragga, vi allieti, spero che leggiate il blog e che di tanto in tanto vi dedichiate, vi ritagliate dei momenti con Voglie. Voglie Letterarie è un personaggio di invenzione, non è un diario autobiografico, è un veicolo di emozioni, di immagini, di imput o output che arrivano, si spera, alla scatola cranica. 
Voglie è evasione, profondità, ironia, leggerezza, tanta sostanza. Voglie è quel personaggio che nella vita vince e perde, e non le importa un tubo, perchè non esiste, non c'è, l'ha inventato un giorno per caso, una giovane donna che fa tutt'altro, forse così diversa da Voglie, che invece più che mostrarsi, si nasconde dietro un personaggio di fantasia, che sembra perfetto, perfetto perchè non esiste, come la perfezione, non esiste, le serve da alibi. Ciò che è perfetto, credete non lo è, e ciò che vuole essere perfettibile, si cimenta in sforzi vani. La perfezione non esiste e poi a Voglie non piace. Lei ama gli imperfetti. Chi legge il blog, può essere tratto in inganno, e pensare che Voglie coincida perfettamente con la donna che dietro scrive. Per tanti aspetti, direi di no. Forse un giorno ve la presento! Lei è più umana, è fatta di carne e di ossa, è imperfetta, capita la si incontri, anche se va sempre di fretta.
Quel che è certo è che questo personaggio che una penna ha creato e tiene in vita non esiste.
Siamo in due, Voglie e la penna.
La donna che scrive vive una vita diversa, reale, Voglie vive una vita d'inchiostro. Quella vita che è talmente bella, solo perchè non la afferri mai, non le dai sempre la stessa dimensione, o lo stesso colore, cambia a seconda dell'inchiostro che usi, la disegni un pò come ti pare, a tuo uso e consumo. 
Voglie è fortunata. Ma esisterà solo finchè quella donna che l'ha creata, avrà voglia di continuare a darle inchiostro. Voglie è seguita, è importante, fluttua leggera sul web, e se la gode un mondo, lei. Voglie è stronza, anche, quando vuole. Poi Voglie sa voler bene, lei, la donna dietro non so. Voglie è tosta, è coraggiosa, ha palle e cuore, roba insolita, insomma. 
E' una gran cosa essere qualcun'altro.delle volte.Ti solleva da ogni responsabilità.