martedì 28 ottobre 2014

Il giovane favoloso.


" Il giovane favoloso", film azzeccato già dalla locandina, che ritrae il giovane Giacomo, a testa in giù, come a dirci che il suo mondo non era sulla terra, ma tra le nuvole, nell'immaginario più fervido e alienante. Magistrale interpretazione quella dell'attore, nei panni di un Leopardi arguto, bizzarro, sensibile e struggente, sin dalle prime scene, che lo raffigurano, mentre, curioso nell'accezione più piena e intensa del termine, sbircia al di là di un muretto di arbusti, che sembra alzarsi e abbassarsi, quasi a rappresentare, in un primo momento un orizzonte chiuso dalle piante, e subito dopo ciò che può scorgersi, oltre le stesse, un orizzonte libero. L'inquadratura del regista si sposta all'infanzia felice del giovane ancora leggero e leggiadro nei suoi giochi con i fratelli, e in una corsa a vista cieca nel verde cortile, dove si coglie palpabile la spensieratezza di spirito e la fiducia in un futuro prossimo.Il discorso filmico segue una sua linearità cronologica, una narrazione a tratti lenta tanto è intensa, intervallata da continui rimandi, citazioni letterali e scansioni teatrali dal forte sapore leopardiano. Si viene subito a contatto, come se si fosse li, spettatori attori dell'intreccio, e non spettatori passivi su una poltroncina di un cinema, con i primi tormenti di Giacomo, nati nell'odiato borgo natio di Recanati, dove una famiglia " prigione", uno studio matto e disperatissimo, un'educazione e una morale troppo rigide, li alimentano, senza respiro. Indimenticabile, la scena di Giacomo mentre struscia sulle pareti polverose di pergamena di libri, vinto dal tedio e dalla malinconia che invoca e rifugge al contempo. Unici appigli l'affetto dei fratelli, e un legame epistolare fortissimo vissuto con intensità quasi orgasmica dal giovane favoloso, che piange felice, si contorce e si commuove oltremodo, quando riceve le lettere amate di Pietro Giordani,l'amato Giordani, che con le sue lodi, la sua costanza nell'interesse verso il Leopardi, lo solleva dalle sue cure, e lo incita a mettere la testa nel mondo e ad abbandonare la sofferta e tediosa Recanati. La scena impressa a mo di chiodo fissato alla parete è quella di Giacomo, che una notte, concitato e bramoso di un nuovo orizzonte che non sia il suo borgo, la sua siepe, in modo così intenso e struggente, decantata, inciampando nelle scale tanto vinto dalla foga, si illude di fuggire, con una valigia piena delle sue sudate carte, con negli occhi un bagliore di speranza che lo fa rifulgere come una fiamma viva, stesso bagliore che si perde nello sguardo freddo e sadico del padre, che scopre essere il cocchiere della carrozza della salvezza, e Giacomo lo fissa in viso col  gelido terrore della meraviglia negli occhi, quasi si fosse imbattuto in Lucifero. Recita Giacomo, si rifugia su quell'ermo colle e canta l'infinito che non smette mai di rincorrere e anelare. Da Recanati, a Firenze, a Napoli, nodo centrale, scenario fisso è una finestra, che da sulla realtà che vive il Leopardi, dalla casa paterna, dove lo stesso vede ogni giorno la bella Teresa, alla casa di Napoli che da sui vicoli di una città enorme e caotica, a Villa Ferrigni di Torre del Greco, dalla quale poteva scorgere la grandiosità dello sterminator Vesevo. L'orizzonte di Giacomo è sempre il medesimo, sebbene muti nell'ambientazione e negli anni, uno scrittoio, una sedia, e una finestra che da su un piccolo o grande mondo. Reminescenze scolastiche non mi hanno permesso di ricordare un Leopardi che mangia golosamente gelato, a dispetto delle prescrizioni mediche, che passeggia ricurvo, toccando ad ogni scena che passa, quasi la terra col mento, vestito elegantemente, e con tinte vivaci e accese da offuscare quasi il suo risaputo pessimismo, un Leopardi che scappa via da un bordello, dopo essere sfuggito ad un incontro con un transessuale perchè deriso dagli scugnizzi. Un Leopardi perso nella sua poesia, drogato dalla recitazione, e che droga, chi lo ascolta, un Leopardi,  che beve vino, mangia e brinda allegramente fino a notte fonda con alcuni popolani in una delle tante osterie del centro antico, un Leopardi, che talvolta, contrariamente a ciò che uno può ricordare, muove al riso, appunto favoloso, brillante, tenace nelle sue convinzioni, ribelle. Che ha lo sguardo che sfida nei salotti fiorentini, quanto in un bar dove aspettando il suo gelato, viene istigato ad una arringa difensiva che ha tutto il raffinato sapore di un ironia mitteleuropea un pò alla Thomas Bernhard o alla Elias Canetti, sulla pretesa felicità delle masse, insomma per dirla in una parola, un Leopardi vivo. Sfuma sullo sfondo quel pessimismo che ce lo ricorda, e che lo avvince, invece, quasi violento, in alcune scene, dove il phatos la fa da padrone, la morte della bella Teresa, gli aneliti d'amore 
respinti per la bella Fanny, le sofferenze del corpo, gli occhi che non vedono, il gobbo che lo invalida, un corpo quasi informe e dolente, che il Germano muove ad arte nell'impaccio. L'avvincente trama, si snoda in un susseguirsi di scene, quasi tutte, interpretate dal Germano, fuori da una giusta, mortificante misura, dove, occhi, corpo e anima parlano la stessa lingua. A rompere, a mio avviso, il marmoreo pessimismo leopardiano e a lanciarlo in una contemporaneità che ce lo fa, forse amare di più, è la colonna sonora dell'intero film, le musiche dell'autore tedesco Sascha Ring, che a mò di suggestiva cornice ripercorrono le scene intinte di una scenografia dagli effetti ipnotici. A me Leopardi piacque prima,ma dopo questo film mi piace di più. La cosa bella di questo film, è che ti fa guardare ad un poeta lontano e vecchio di polvere con occhi nuovi. E qui vi lascio la citazione che più mi è arrivata "... "Chi dubita, sa! E sa più che si possa"!!!

martedì 14 ottobre 2014

L'insostenibile peso della vacuità.















L'insostenibile leggerezza della vacuità. Qualcuno che aveva i numeri, non di certo io, che sono solo una blogger che trabocca di fantasia e ardore, ma uno con le carte in regola, anzi le parole, ha scritto un libro dal titolo più o meno simile, più meno che più, simile intendo. Quel titolo lì era " l'insostenibile leggerezza dell'essere" di un certo Milan Kundera, che a mio modesto avviso di insostenibile aveva tutto, di leggero, il nulla. Non a caso, vi cito un passo tratto dallo stesso "..Il mito dell’eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla”. Mo ditemi voi, questo come faceva ad avere sti numeri, io ci ho pure provato a leggerlo, attratta dal titolo che risuonava nella mente come un eco cui non era possibile non dare ascolto, ma è rimasto lì nella libreria, ho vagheggiato quel tormento palpabile e l'ho lasciato riposare in quelle pagine mai aperte. La mia sintetica, telegrafica recensione sarebbe " cambia libro, che sei in tempo"!.. Vabè ma la mia è tutta invidia, capirete bene, una modesta blogger con Kundera che c'azzecca?.. E menomale! Però, e questo pezzo ne è la riprova, anche un libro non letto può arricchirci, proprio perchè non l'abbiamo letto, e può, come dire, fornirci, come alla sottoscritta in questo caso, l'ispirazione per buttare giù due righe da modesta blogger raffreddata, vittima del balletto meteo di questi giorni, che si porta appresso una scorta di kleenex pronti all'uso e che ha un naso rosso come la famosa renna di Babbo Natale. Mi ispira " vacuità", io muterei il titolo in " l'insostenibile peso della vacuità", si badi bene, senza alcun riferimento alla trama del romanzo, che personalmente ignoro. Se ci pensiamo bene, e ci riflettiamo un pò su, nulla più della vacuità ha un peso insostenibile. Il vuoto va riempito, ma non a caso, va riempito con ciò che davvero è capace di riempire. Ora ci addentreremo in cunicoli senza uscita, la vacuità non è sostanza, ha un peso insostenibile, è come se ti affanni a riempire qualcosa in tanti modo diversi, ma ti accorgi che il contenitore pieno all'orlo, si svuota sotto i tuoi occhi, all'improvviso. E' come quando qualcuno, ti sciorina una serie di belle parole, confezionate ad arte, con fiocco, e a queste belle parole, non seguono fatti col fiocco, un pò la storia di tutte le storie. La vacuità. Quanto tempo perdiamo, tempo inutile, che nessuno ti ridà più indietro, prezioso, dietro a storie di vacuità, se solo ne avessimo consapevolezza in fretta, scapperemmo via, anche se quella speranza di trovarci sostanza, ci molla per ultima, maledetta speranza, e quasi quasi fotte la vacuità, ma la fotte solo in apparenza. Perchè la speranza che nelle cose della vita, che nelle persone che si incontrano nella vita, nelle storie della vita, la speranza è di trovar sostanza. Però in fondo, bando alla sensibilità, bè anche la leggerezza della vacuità non è male, un pò ti distoglie dal frastuono che crea la sostanza, perchè per quanto speriamo nell'una, la vacuità è più leggera, pesa di meno, è meno ingombrante. Forse, vi sto volutamente scombinando le carte sul tavolo da gioco, forse, cerco la leggerezza della vacuità, forse anelo alla sostanza, all'insostenibile leggerezza della sostanza, per dirla alla Kundera.