venerdì 26 dicembre 2014

Giulia.

Giulia mentre rimetteva a posto il suo armadio sentiva che come quegli abiti abbandonati alla rinfusa su una poltrona, anche i suoi pensieri e le cose della sua vita avrebbero trovato il giusto ordine, avrebbero abbandonato quell'ordine casuale delle cose che aveva lasciato lì sedimentare nella mente. Aveva una mente spaziosa, Giulia, dove c'era posto, c'era posto per tutto, per quei pensieri disordinati e convulsi, per quella quotidianità tenuta in un angolo, intatta, fatta di cose, la spesa, il suo libro da finire, la mamma da andare a trovare, quel vestito che aveva visto dalla vetrina e che avrebbe voluto comprarsi, concedersi, se i soldi a fine mese glielo avrebbero consentito. 
E poi in un emisfero a parte del cervello, indelebile, come una macchia che non andava via neanche con la candeggina, c'era quel litigio, marchiato a fuoco nella mente. I vestiti erano un cumulo di colore scomposto sul pavimento e Giulia attraverso quella lente vedeva la sua vita, scomposta ma a colori. Con cura sistemava prima i maglioni in ordine di colore e di peso, quelli più pesanti spiccavano in cima, una  lunga pila di maglioni, ne aveva tanti Giulia, eppure finiva per mettere sempre gli stessi, quelli più familiari li teneva in cima, a vista, a portata d'occhio. Poi intanto era passata ai jeans, capo che indossava sempre, o quasi, da quelli comodi a quelli più stretti, e poi arrivava il turno dei vestiti, a quelli teneva di più; lei, a pensarci bene, era tipa da vestito, da abitino sobrio, da anfibi, da calza a tono, era così Giulia, semplice e complicata, bella come una mattina di sole, ma con tante nuvole. E le sue nuvole, a quelle, ci arrivavano in pochi. Marco aveva voluto toccarle quelle nuvole. 
Il suo armadio aveva un altro aspetto, a un tratto, aveva riposto tutto in un ordine precostituito, era fuori dal disordine, era fuori dal caos, ma la sua testa no. Quell'ordine ristabilito, aveva dato una prima parvenza di ordine nella sua testa, era come se anche i suoi pensieri spiegazzati fossero l'uno sull'altro quieti come i suoi maglioni. Aveva una domenica addormentata davanti agli occhi. Aveva dato forfait all'invito a pranzo dai suoi, sua madre aveva insistito, ma lei non aveva voglia di parlare, di usare parole vuote, per dire cose vuote, perchè avrebbe usato quelle con sua madre,e con suo papà ancor di più. Perchè se Giulia avesse deciso di andare a quel pranzo, e di usare parole piene, avrebbe finito col dire troppe cose scomode. Aveva pensato, senza neanche pensarci troppo, in fondo, che era meglio declinare quell'invito, che era meglio mettere in ordine l'armadio, eppure avrebbe voluto abbracciare suo padre, avrebbe tenuto come una carezza quell'abbraccio per quei giorni, in cui non si sarebbero visti. Aveva messo giù il telefono, aveva detto no, aveva sistemato la stanza, rifatto il letto, alzato lo stereo a palla e aveva preso a ballare da sola, come faceva spesso, quando era così felice da fare schifo, e anche quando non lo era. Anzi, Giulia aveva capito che funzionava quasi di più quando felice non lo era. Continuava a ballare e girava la testa, era come su una giostra, ci era salita e non voleva più scendere. Non voleva vedere nessuno, Carlo l'aveva cercata, quel suo amico, appena rientrato da Londra, sarebbe stato un piacevole caffè, si sarebbero detti, raccontati, ma faceva molto freddo fuori, e quella domenica era solo una domenica da consumare a letto a fare l'amore, o a scrivere, a finire quel libro, cominciato mesi fa, e rimasto lì sulla scrivania, acerbo e a metà. 
Non poteva fare l'amore Giulia, e vincere quel freddo, che sentiva dentro e fuori, Marco non c'era, dopo quel furioso litigio non l'aveva più chiamata, lei lo aveva cercato, invano quella sera, era corsa sotto casa sua, gli aveva gridato qualcosa di orribile mentre lui la ignorava dalla finestra, la luce della camera era accesa, e il silenzio era divenuto assordante, l'indifferenza pesava più del freddo che Giulia sentiva. Eppure si era promessa che non ci sarebbe più ricascata, dopo Hermes, il tizio conosciuto in Erasmus. Non usciva con nessuno da tempo, neanche per un caffè, aveva deciso che era maldestra nelle storie di cuore lei, che si infiammava subito, o affatto, che non ci era tagliata, che non ci voleva credere ancora, ed era finita per passare da un letto a un altro, giusto il tempo per scaldarsi un pò. Questo prima di lui, prima di Marco.
Non c'era tempo, ora, di arrovellarsi appresso a questi flash impazziti che le correvano nella mente, come se di colpo quei maglioni in ordine si fossero nuovamente spiegazzati, voleva solo ballare Giulia, ballare, ballare quel ritmo rock che le piaceva tanto, che le accendeva una sensualità fresca, che la copriva come una veste. E quella domenica sarebbe scivolata così, dalla finestra, al divano, divorando un pò per noia, un pò per fame gli snack dalla dispensa. Marco non l'avrebbe chiamata, ancora. Gli mancava quel tassello di abitudine, gli mancava il suo calore, gli mancava la sua pelle, la sua bocca, l'avrebbe baciato dappertutto, se solo fosse andato a trovarla. 
Giulia si sentiva fragile e in fondo non le importava, si lasciava cullare da quella dolce fragilità e dal rock e lasciava che quella oziosa domenica si consumasse lentamente, coi suoi pensieri un pò in ordine, un pò nò, anestetizzati da un buon vino, con l'ultimo trailer di messaggi di whatsapp di Marco che ancora odoravano di passione e con tante nuove idee per il finale del suo libro nella testa.


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