giovedì 23 giugno 2016

lettura light e lettura impegnata.

Un mese fa curiosando in libreria alla ricerca di nuove letture, ho scovato un libro, che probabilmente non avrei mai acquistato dal titolo, se non come lettura easy sotto l'ombrellone, per una sola ragione, mi appassiono alle letture impegnate.. 

Felice di sbagliarmi, Federica Bosco è stata una piacevolissima sorpresa e la protagonista ha una personalità molto interessante. Marica e' fragile, ingenua, intrepida e determinata, ha 31 anni, vive a New York, è cronicamente single e ha un sogno nel cassetto : diventare una scrittrice. 
In un unico volume si condensa l'irresistibile trilogia delle sue disavventure, una storia toccante, leggera di sentimenti e desideri tutti al femminile, condita da un'ironia irriverente e frizzante sempre in grado di sorprendere. Marica è una donna arguta, intelligente, che crede di bastare a se stessa, che è così abituata a contare sulle proprie forze e a cavarsela da sola, che puntualmente, forse per paura di poter contare anche su qualcun'altro, un uomo, si infila in relazioni sbagliate e impossibili destinate a non durare, in relazioni amorose dove lo scambio è malamente bipartito, lei da, ma non riceve, o meglio non riceve quanto in amore si dovrebbe ricevere, quindi continua, suo malgrado, forse inconsapevolmente ad elemosinare questo tanto agognato amore, finchè tutto dal caos, quasi naturalmente in un modo del tutto inaspettato prende forma e assume ordine. Questa lenta, sofferta, presa di consapevolezza viene però vissuta con un' autoironia intelligente che soggioga il lettore tenendolo lì attaccato alla lettura, fino a diventarne avido. Le sue vicissitudini amorose, lavorative, familiari vengono offerte al lettore in uno stile generoso di particolari,  di viaggi introspettivi, irriverenza, ironia tagliente, il tutto fa di questo corposo volume una miscela esplosiva fino a giungere al tanto atteso "the end" che non delude di certo, ma vi consiglio di scoprirlo.

L'ordine di disposizione delle mie letture è casuale, non rispecchia in modo alcuno l'ordine reale in cui si sono susseguite, è una raccolta dettata dalla spontaneità del ricordo, e i ricordi non sempre seguono un ordine.
Qualche anno fa mi sono accostata alla lettura di un libro molto interessante, dalla copertina rossa ritraente una foto di un tipo dallo sguardo inquieto e la fronte crucciata, l'autore, suppongo, un tale Mordecai Richler, scrittore e sceneggiatore canadese. 
Ero un po' restia ad avvicinarmi a questa lettura, e spinta da pareri positivi di chi mi aveva preceduta nella lettura, per rinfocolare un entusiasmo sopito già dopo l'acquisto, mi ci sono buttata senza starci a pensare troppo, e da lì, da un tuffo scevro da calcoli e previsioni la scoperta!
L'approccio con le prime cento pagine si è rivelato devastante, un ginepraio di flash-back sfuggente ad ogni inquadratura o collocazione spazio-tempo possibile, ero quasi convinta ad abbandonarlo, ma ho pazientemente desistito e tentato di utilizzare una bussola per recuperare trama e personaggi, in un continuo andirivieni tra presente, passato e futuro.  
Devo ammettere che sono contenta di non aver gettato la spugna, è stato un accattivante compagno quel Panofsky, l'autore intendo. Ridevo divertita quasi ad ogni pagina, dopo le prime cento, e poi questo libro qui, emoziona e anche tanto.  Narra la vita strampalata, esilarante, sregolata, fatta di un pò tanto wisky di buona qualità, s'intende, di un certo Barney Panofsky, canadese,  un ricco ebreo, produttore televisivo di successo,  che passati i 60 anni decide di scrivere un'autobiografia ( per dare la sua versione dei fatti agli accadimenti che hanno portato alla morte del suo carissimo amico Boogie Moscovitch) e liberarsi così dell'accusa di omicidio che gli viene mossa nel libro " il tempo, le febbri" dallo scrittore Terry Mclver. Mordecai racconta la vita di Barney, vissuta sempre all'ultimo respiro, fatta di esperienze e incontri straordinari, tre mogli, la prima la pittrice Clara Charnofsky, morta suicida a Parigi, la seconda " ciarliera", frivola e ricca ereditiera, e poi lei l'elegante, intelligente e carismatica Miriam  che Barney incontra al suo matrimonio, e di cui non riesce più a fare a meno, tanto che la insegue quel giorno stesso, abbandonando il suo ricevimento di nozze, sul treno che lei la futura terza signora Panofsky aveva preso per tornare nella sua città. Miriam, il vero grande amore di Barney,"la donna che l'età non può sciupare nè l'abitudine guastare", lei che dopo aver strenuamente corteggiato, inseguito, diventa sua moglie, e lui continua ad amarla in un modo totalitario, assoluto, covando di continuo trappole per gli uomini che le ronzano attorno, uno in particolare, per il quale poi lo lascerà. 
Dapprima sventolerà  due biglietti per Parigi, cercherà di convincerla a partire con lui (lei non ci sta, ma le sarebbe molto piaciuto se lui avesse insistito un po’ di più, come scopriamo più avanti). Dopo seguirà  l’invio, a cadenza settimanale, di rose rosse a stelo lungo, e poi finalmente lei accetterà  un invito a pranzo in un bell’albergo di Toronto. E da qui il primo mantra di Barney “Guardale gli occhi, Barney, ma non le gambe o le tette”   Di fronte a Miriam, Barney ha la salivazione azzerata, cerca invano “la battuta fulminante, l’aforisma brillante,  ma quel che gli esce è solo un: “Ti piace vivere a Toronto?” 
Miriam e Barney vivranno per molti anni felici e contenti, facendo tre figli, crescendoli, scopando come ricci. Poi lei lo lascerà, ne scopre un tradimento che non nasce per mancanza di amore, ma per l'insinuarsi del dubbio, la mancanza di fiducia, che piano piano vanno logorando il rapporto. Lui è un uomo buono, un uomo che ama davvero la sua donna sinceramente, ma proprio per questa ragione, per cercare di preservare questo amore, finisce invece per  rovinarlo. Diciamo che il perno del romanzo è questo qui, il  resto lo lascio scoprire a voi, come l'accusa di omicidio del suo amico Boogie, ma questa è un'altra storia nella storia. Ho amato moltissimo questo personaggio, è stato difficile staccarmene, abbandonarlo, mi ha fatto troppo ridere con i suoi mantra,  è uno di quei libri che ti resta accanto, un pò come Barney, seduto ad un bar con l'aria sorniona che sorseggia un buon wisky. 
Dal momento che per me è solo un questione di cut&paste, non ho assolutamente problemi a incollare qui l’intero capitolo (in italiano) de l'appuntamento con Miriam da La versione di Barney. E così anch’io do il mio contributo alla comunità. A parte tutto, non so se il brano, presentato così fuori contesto, possa avere la stessa forza che ha all’interno del libro. Quel che posso dire è che quando l’ho letto la prima volta non la smettevo di ridere, ho riso tantissimo. E ho pensato fosse grandioso.
“Lascia perdere, brutta troia imperialista” le dissi. “Non tradisco Miriam neppure con mia moglie, perché dovrei farlo con te?”. Mi giravo e mi rigiravo nel letto. Bada, fissala dritto in quei meravigliosi occhi blu, ma non guardarle le tette. E neanche le gambe, brutto animale. Ripassai qualche aneddoto che immaginavo le sarebbe piaciuto, e che forse mi sarebbe valso il primo premio, la comparsa di quella certa fossetta; e riesumai alcune storielle edificanti che guarda caso mi avrebbero messo in buona luce, ma poi le eliminai arrossendo. Sperando di calmarmi i nervi mi accesi un Montecristo; dopodiché, terrorizzato dall’alito cattivo, corsi in bagno a lavarmi i denti, e persino la lingua. Tornando a letto, sfiga volle che passassi davanti al minibar. In fondo, pensai, aprirlo non mi ammazzerà, magari mi sgranocchio un salatino. Forse mi faccio anche un goccetto, giusto uno, che sarà mai. Bene, alle tre di notte notai con raccapriccio che sul tavolo di vetro erano allineate dodici mignon vuote di whisky, vodka e gin. Ubriacone. Smidollato. Detestandomi dal profondo del cuore, mi infilai a letto e cercai di rivedere Miriam al mio matrimonio, la sua grazia infinita in una nuvola di chiffon azzurro. Dio, quegli occhi. Quelle spalle nude. Oddio, e se quando le vado incontro si accorge che ho un’erezione? A titolo precauzionale, mi ripromisi di farmi una sega subito prima di pranzo. Quindi chiusi gli occhi, ma non per molto. Un attimo dopo schizzavo già fuori dal letto imprecando contro me stesso: non ti sei svegliato, brutto idiota, e adesso farai tardi. Mi vestii come un forsennato – fino a quando, in uno sprazzo di lucidità, mi venne in mente di dare un’occhiata all’orologio. Le sei e mezzo. Merda, merda e merda. Mi spogliai, mi feci una doccia, la barba, e poi mi rivestii. Passando davanti alla Prince Arthur Room vidi che apriva solo alle sette per la colazione, e decisi di andare a fare quattro passi fuori. Al ritorno dissi al maitre: “Ho riservato un tavolo per due a pranzo. Volevo assicurarmi che fosse vicino alla finestra”.
“Mi spiace, signore, ma temo che quelli vicino alla finestra siano tutti presi”.
“Voglio quello là” feci allungandogli un ventone. Tornato in camera vidi la lucina rossa del telefono che lampeggiava. Mi prese quasi un colpo. Non può. Ha cambiato idea. “Non esco a pranzo con maschi adulti che si masturbano nei bagni degli alberghi”. Ma la telefonata era della Seconda Signora Panofsky. La richiamai a casa. “Hai dimenticato il portafoglio sul tavolo dell’ingresso” mi disse.
“Ma figurati”.
“Ce l’ho in mano, con tutte le carte di credito”.
“Per le buone notizie si può sempre contare su di te”.
“Adesso è colpa mia?”.
“Mi arrangerò lo stesso” conclusi riagganciando. Poi, preso da un repentino attacco di nausea, mi precipitai in bagno. Caddi in ginocchio, con la faccia sulla tazza, e vomitai non so quante volte. Congratulazioni, Barney, adesso puzzerai come una fogna. Mi spogliai di nuovo, feci un’altra doccia, mi spazzolai i denti fino a consumare tutto lo smalto, feci una quantità impressionante di gargarismi, mi cambiai camicia e calzini e voilà, eccomi di nuovo in strada. Ma dopo un centinaio di metri ricordai di aver detto al maitre che alle dodici e cinquantacinque in punto volevo una bottiglia di Dom Pérignon al tavolo. Esibizionista. Una donna del livello di Miriam la troverà una cafonata pazzesca. E un’allusione pesante, anche, come se volessi sedurla lì per lì. “E tu credi che se mi compri una bottiglia di champagne io ti zompo nel letto?”. Nulla di più remoto da me di tali pensieri impuri. Giuro. Morale, tornai in albergo e dissi di lasciar perdere lo champagne. E se poi, incredibile ma vero, avesse accettato di salire in camera? In fondo ho delle buone qualità. – Questo è un quiz, Panofsky. Segna con una crocetta tre tue buone qualità fra le seguenti dieci. – Vai a farti fottere. Salii a controllare se in camera era tutto a posto, e scoprii che il letto era ancora sfatto. Chiamai subito la donna delle pulizie per protestare, e il servizio in camera per ordinare una dozzina di rose rosse e una bottiglia di Dom Pérignon con due calici.
“Mi scusi, Mr Panofsky, ma non aveva annullato l’ordine per lo champagne?”.
“Ho solo detto che non volevo la bottiglia nella Prince Arthur Room, ma ne voglio invece una fredda in camera, non prima delle due. Sempre che non sia troppo disturbo, naturalmente”. A mezzogiorno tra i piedi in fiamme, il mal di testa, la stanchezza e la tensione ero ridotto a uno straccio. Decisi quindi che quello che mi ci voleva era una bella tazza di caffè al Roof Bar. Solo che una volta lì, d’istinto, ordinai un Bloody Mary. Mi ci trastullai per un po’, fino a quando scoprii che mancavano ancora tre quarti d’ora all’appuntamento, e che nel bicchiere era rimasto solo un po’ di ghiaccio. A quel punto ne ordinai un altro, e intanto cavai di tasca la lista con gli argomenti di conversazione che mi ero preparato. Hai visto Psycho? Hai per caso letto Il re della pioggia? Cosa ne pensi del vertice Adenauer-Ben Gurion a New York? Secondo te Caryl Chessman meritava la sedia elettrica? Dopo il terzo Bloody Mary mi sentivo più sicuro, e diedi un’occhiata all’orologio. Le dodici e cinquantacinque. Mi riprese il panico. Porca miseria, mi ero dimenticato di masturbarmi, e ormai era troppo tardi. E le pezze d’appoggio. Le avevo lasciate giù: sapendo che suo padre era stato un socialista, mi ero portato dietro La libertà nello stato moderno di Laski, e naturalmente l’ultimo numero del “New Statesman”. Feci una corsa in camera, infilai il “New Statesman” in tasca e mi precipitai al mio tavolo nella Prince Arthur Room. All’una e zero due ecco entrare Miriam, preceduta dal maitre. Mi alzai per salutarla, riuscendo a nascondere sotto il tovagliolo di lino una tumescenza francamente imbarazzante. Aveva un provocante cappello di pelle nera, un vestito di lana dello stesso colore e i capelli più corti di quanto li ricordassi. Era splendida. Avrei voluto dirle qualcosa di carino, ma non volevo pensasse che ci stavo già provando. Così mi limitai a un “Sono felice di vederti”, seguito da un “Bevi qualcosa?”.
“E tu?”.
“Bah, io di solito pasteggio a Perrier, ma forse oggi bisognerebbe festeggiare. Che ne diresti di una bottiglia di champagne?”.
“Be’…”. Chiamai il cameriere. “Una bottiglia di Dom Pérignon, per favore”.
“Ma l’ha appena…”.
“Le spiacerebbe portarmi una bottiglia di champagne, per favore?”. Accendendomi una Gitane dopo l’altra cercavo disperatamente di ricordarmi qualcuno dei bons mots che avevo provato e riprovato fino alla nausea, ma non andai oltre un “Che caldo, eh?”.
“Non trovo”.
“Neanch’io”.
“Ah”.
“Haipercasovisto Il re della pioggia?”.
“Scusa?”.
“Il re… cioè, Psycho”.
“Non ancora”.
“Secondo me la scena della doccia… no, dimmi cosa ne pensi tu”.
“Be’, prima di pensarne qualcosa dovrei vederla”.
“Giusto. Certo. Magari riusciamo a beccarlo stasera…”.
“Ma tu lo hai già visto”.
“Ah già. Vero. Adesso non ci pensavo”. Che cazzo, dove è andato a prenderlo lo champagne, a Montreal? “Secondo te,” le chiesi cominciando a sudare “Ben Gurion ha fatto bene ad accettare l’incontro con Eisenhower a New York?”.
“Con Adenauer, vuoi dire”.
“Certo, Adenauer”.
“Scusa, ma mi hai invitato per un’intervista?” mi chiese. Ed eccola lì, la fossetta. Stavo per morire, ed essere assunto direttamente in cielo. Non azzardarti a posare lo sguardo sul suo seno. Non staccare gli occhi dai suoi. “Ah, eccolo che arriva”.
“Il servizio in camera chiede se conferma l’ordine per l’altra…”.
“Versi, per favore. Versi e basta”. Brindammo. “Non sai quanto mi hai fatto felice liberandoti oggi”.
“Ma dài, sei stato gentile tu a trovarmi un buco fra un appuntamento e l’altro”.
“Veramente io sono venuto apposta per vedere te”.
“Mi sembrava che avessi detto…”.
“Come no, ho una riunione. E’ vero, sono qui per una riunione”.
“Barney, sei ubriaco?”.
“Assolutamente no. Credo che dovremmo ordinare. Lascia perdere i menu a prezzo fisso, prendi tutto quello che vuoi. Certo qui dovrebbero mettere l’aria condizionata” dissi allentandomi la cravatta.
“Ma non fa caldo”.
“Sì che fa caldo. Cioè no, in effetti no”. Miriam ordinò la zuppa di piselli e io, chissà perché, quella di aragosta, che mi fa schifo. E mentre la Prince Arthur Room cominciava a basculare, cercavo disperatamente una battuta fulminante, un aforisma letale, capace di stendere Miriam e far impallidire il ricordo di Oscar Wilde. Risultato, mi sentii pronunciare le seguenti parole: “Ti piace vivere a Toronto?”.
“Mi piace il mio lavoro”. Contai fino a dieci, poi sparai: “Sto divorziando”.
“Oh, mi spiace”.
“Nonèchedobbiamoparlarneproprioadesso, mainsommavistochenonsonopiùunuomosposato, tudaorainpoiseiliberadivedermiancora”.
“Parli talmente in fretta che non riesco a seguirti”.
“Ho detto che presto non sarò più un uomo sposato”.
“E’ ovvio, dal momento che stai divorziando. Spero solo che tu non lo abbia fatto per me”.
“Non avevo scelta. Io ti amo. Disperatamente”.
“Barney, ma se non mi conosci quasi”. E qui al nostro tavolo si materializzò – non proprio come lo spettro di Banquo, ma quasi – quello Yankel Schneider che non vedevo da quando eravamo insieme alle elementari. Quando si dice la sfortuna. “Tu sei il bastardo che da bambino mi ha rovinato la vita. Mi facevi il verso perché balbettavo” tuonò.
“Scusi, ma che cosa sta dicendo?”.
“Lei ha la disgrazia di essere sua moglie?”.
“Non ancora” precisai.
“Per favore” disse Miriam.
“La signora non c’entra, chiaro?”.
“Mi sfotteva perché balbettavo. Mi faceva continuamente il verso, e io la notte, al buio, mi strappavo i capelli dalla disperazione. Sono quasi diventato matto. Mia madre doveva mandarmi a scuola a calci. Non per modo di dire, sul serio. Perché lo facevi?”.
“Miriam, non ho mai fatto nulla del genere”.
“Che gusto ci provavi?”.
“Veramente non mi ricordo affatto di lei”.
“Per non so quanto tempo ho sognato di essere in macchina, di vederti attraversare la strada davanti a me e di stirarti. Mi ci sono voluti otto anni di analisi per capire che non ne valeva la pena. Tu sei pattume umano, Barney” disse. Poi diede un ultimo tiro di sigaretta, me la buttò nella zuppa e se ne andò.
“Cristo” dissi.
“Pensavo che lo avresti preso a pugni”.
“Non davanti a te, Miriam”.
“Secondo alcuni hai un pessimo carattere, e quando hai alzato un po’ troppo il gomito, come ora – il che fra parentesi non è molto gratificante -, cominci a cercar rogna”.
“”Alcuni” chi, McIver?”.
“Si dice il peccato ma non il peccatore”.
“Mi sento poco bene. Sto per vomitare”.
“Ce la fai ad arrivare in bagno?”.
“Che disastro”.
“Vuoi…”.
“Devo stendermi”. Mi accompagnò in camera, dove caddi subito in ginocchio e vomitai nella tazza, mollando una scoreggia devastante. Volevo essere sepolto vivo. O fatto a pezzi. Dilaniato da quattro cavalli da tiro. Miriam bagnò un asciugamano, mi pulì la faccia e mi accompagnò fino al letto.
“Che umiliazione”.
“Ssh”.
“Adesso mi odi e non mi vorrai rivedere mai più”.
“Sta’ un po’ zitto” disse. Poi mi passò dì nuovo sulla faccia l’asciugamano umido e mi fece bere un bicchier d’acqua, reggendomi la testa con la sua mano fresca. Decisi che non mi sarei mai più lavato i capelli in vita mia. Mi coricai e rimasi per un po’ a occhi chiusi, sperando che la stanza smettesse di vorticare. “Tra cinque minuti starò benissimo. Ti prego, non andartene”.
“Prova a dormire un po’”.
“Ti amo”.
“Sì, sì, va bene”.
“Ci sposeremo e avremo dieci figli”. Al risveglio, un paio d’ore dopo, la vidi lì in poltrona, le lunghe gambe accavallate, che leggeva Corri, coniglio. Era talmente assorta che rimasi in silenzio, approfittandone per contemplare la sua infinita bellezza. Avrei pianto. Il cuore era come impazzito. Pensai che se in quel preciso istante il tempo si fosse fermato lo avrei trovato giusto. Alla fine dissi: “Lo so che non vorrai vedermi mai più. E non posso darti torto”.
“Adesso ti ordino toast e caffè, e se non ti spiace mi faccio portare un tramezzino al tonno. Ho fame”.
“Devo puzzare da far schifo. Giurami che se mi butto sotto la doccia non te ne vai”.
“Vedo che mi consideri una ragazza assai prevedibile”.
“Come puoi dire una cosa del genere?”.
“Eri sicuro che sarei salita in camera”.
“Assolutamente no”.
“E allora per chi erano lo champagne e le rose?”.
“Quali?”. Me le indicò.
“Ah, quelle”.
“Già, quelle”.
“Non so proprio cosa mi prende, oggi. Non sono io. Non ci sto con la testa. Adesso chiamo il servizio in camera e faccio portar via tutto”.
“Lascia perdere”.
“Lascio perdere”.
“E adesso di cosa parliamo? Di Psycho, o del vertice Ben Gurion-Adenauer?”.
“Miriam, non voglio mentirti. Né ora, né mai. Yankel ha detto la verità”.
“Yankel?”.
“Il tizio che è venuto prima al tavolo. Mi piazzavo davanti a lui in cortile e gli dicevo: “Hai fatto pi-pi-pipì a-a-a letto co-co-come al so-so-solito, brutto ri-ri-ritardato?”. E ogni volta che in classe si alzava, terrorizzato, per rispondere a una domanda, io cominciavo a ridacchiare prima ancora che aprisse bocca, e lui scoppiava regolarmente in singhiozzi. E io: “U-u-un ve-ve-vero fi-fi-figurone, Yankel”. Perché facevo una cosa così orrenda?”.
“Non pretenderai una risposta da me, spero”.
“Miriam, se solo sapessi quanto sei importante per me…”. E all’improvviso provai una specie di strana sofferenza, o meglio, di strana gioia. Era come se il ghiaccio che mi ricopriva il cuore si stesse spaccando; l’inizio del disgelo, una cosa così. Mi misi a parlare a macchinetta, inframmezzando – temo alla rinfusa – le disavventure della mia infanzia alle storie di Parigi. Raccontavo di Boogie che comprava una dose, e subito passavo all’indifferenza di mia madre nei miei confronti. Le dissi di come Yossel Pinsky fosse sopravvissuto ad Auschwitz, e di come ora trattasse affari in un bar di Trumpeldor Street, a Tel Aviv. Mi sembrava imprescindibile farle sapere che a suo tempo avevo trafficato in anticaglie egizie di contrabbando. E che ballavo il tip tap. Da una rievocazione delle gesta di Izzy Panofsky alla Buoncostume passai alla lettura di Terry McIver nella libreria di George Whitman, quindi la intrattenni su Hymie Mintzbaum. Le raccontai della posta pneumatica che mi era arrivata troppo tardi, di come Clara fosse andata incontro a una morte prematura che forse si sarebbe potuta evitare, e ammisi che sognavo ancora il suo cadavere decomposto.
“E così il Calibanovitch di quel famoso verso saresti tu”.
“Sì, sarei io”. Le spiegai che mi ero impegolato nel matrimonio con la Seconda Signora Panofsky in spregio a Clara, anzi no, per senso di colpa, anzi no, perché ancora non le avevo perdonato il suo giudizio su di me. Ma giurai di non avere mai amato nessuno fino a quando non avevo incontrato lei, Miriam, al mio matrimonio. Poi mi resi conto che fuori era sceso il buio, e la bottiglia di champagne era finita.
“Andiamo a cena?” le chiesi.
“Prima magari facciamo due passi”.
“D’accordo”. Toronto non mi è mai piaciuta, con la sua aria tronfia da reparto contabile del paese. Ma quella sera tiepida di inizio maggio, nel caos di Avenue Road all’ora di punta, mi sentivo particolarmente euforico e conciliante. Camminavo a un palmo da terra. Ma sì, in fondo gli alberi erano carichi di gemme. E d’accordo, i fruttivendoli verniciavano di arancio o di viola le margherite esposte fuori dai negozi, però i mazzi di narcisi erano incontaminati. Alcune delle segretarie che camminavano a due a due col vestito estivo avevano un’aria graziosa. Sulle ali dell’entusiasmo sorrisi un po’ troppo a una giovane madre che spingeva il passeggino – almeno a giudicare dall’occhiataccia che mi rivolse e da come, di colpo, accelerò il passo. E neppure il solito, sudatissimo maratoneta in braghette corte che saltellava sul posto a un semaforo riuscì a rovinarmi l’umore. Anzi, lo abbordai con un “Bella serata, vero?”, che lo spinse immediatamente a controllare se il portafoglio fosse ancora al suo posto. E forse non avrei dovuto fermarmi ad ammirare l’Alfa Romeo nuova di zecca parcheggiata davanti a un antiquario, dato che il legittimo proprietario si precipitò fuori con aria truce. Cammina cammina arrivammo all’entrata di un piccolo parco, dove pensavo avremmo potuto fermarci a riposare su una panchina. Ma il cancello era chiuso col lucchetto, e su un cartello si leggeva: “VIETATO CONSUMARE PASTI O BEVANDE, ASCOLTARE MUSICA e INTRODURRE CANI”.
“A volte” dissi a Miriam prendendola per mano “penso che lo spirito di questa città, la sua vera essenza, sia il terror panico che qualcuno, da qualche parte, possa essere felice”.
“Vergognati”.
“Perché?”.
“Perché hai usato il saggio sul puritanesimo di Mencken senza nemmeno citare la fonte”.
“Davvero?”.
“Come fosse farina del tuo sacco. Non avevi promesso di non mentirmi mai?”.
“E’ vero. Scusa. Cominciamo da adesso”.
“Io ci sono cresciuta, tra le bugie, e non le tollero più”. Improvvisamente serissima, Miriam mi parlò di suo padre, il tagliatore di diamanti e sindacalista. Che lei aveva adorato, considerandolo un meraviglioso sognatore, fino a quando non aveva scoperto la sua seconda vita. Era fissato con le donne; si faceva tutte le operaie che gli capitavano a tiro, e passava i sabati sera nei locali più infimi. Per sua madre era stato un tormento. – Come puoi sopportarlo? le aveva chiesto Miriam un giorno. – E cos’altro posso fare? aveva risposto lei, chinandosi sulla macchina da cucire. La madre di Miriam era poi morta di cancro all’intestino, fra sofferenze atroci. “Gliel’ha fatto venire lui”.
“Non credi di esagerare?”.
“No. E non permetterò a nessun uomo di fare lo stesso con me”. Non ricordo esattamente cosa mangiammo, né dove. Mi pare in una bettola dalle parti di Yonge Street, seduti fianco a fianco, con le gambe che si toccavano. Però ricordo bene che lei mi disse: “Non ho mai visto nessuno così infelice al suo matrimonio. Ogni volta che alzavo gli occhi mi stavi guardando”.
“Come l’avresti presa se fossi rimasto sul treno?”.
“Non sai quanto ho sperato che lo facessi”.
“Davvero?”.
“Be’, stamattina sono andata dal parrucchiere, il vestito l’ho comprato apposta, e non mi hai neanche detto che sto bene”.
“No. Sì. Ma ti trovo splendida, Miriam, giuro”. Quando arrivammo sotto casa sua in Eglinton Avenue erano ormai le due. “Scommetto che fingerai di non voler salire”.
“Sì. No. Aiuto, Miriam”.
“Mi devo alzare alle sette”.
“Be’, allora…”.
“Allora vieni” disse prendendomi per mano.
Cmq io sto libro qui l'ho amato e lo amo ancora. E posso assicurarvi che è sempre una lettura piacevole, esilarante, divertente, è un libro che ti fa morire dal ridere da sola. E che ti fa capire quanto un uomo " preso" possa essere nella sua fragilità e imperfezione, goffo e adorabile, quanto stronzo buono e vittima sacrificale. Ma è concesso solo al Panofsky.
Buona Lettura da Voglie!!!!!!


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